ANDREOSE DANILO – SCULTORE
Danilo Andreose, che spesso vedevo sulla soglia di casa, passando lì vicino per andare a San Vito, è stato una persona di grande spessore sia umano che artistico.
In occasione della stesura sul “Monumento ai Marinai d’Italia” di Via Matteotti, ho cercato invano in Internet una sua biografia. Per questo motivo ho voluto rendere omaggio alla sua presenza e alla sue opere pubblicando la sua vita e il saggio (delicato, profondo, e realistico) che un altro grande “bassanese” gli ha dedicato tempo fa. (VB)
LA VITA di DANILO ANDREOSE
1922 – 9 Agosto. Nasce ad Agna in provincia di Padova, ultimo di tre figli. Il padre Alessandro è impiegato tuttofare presso il Regio Ufficio Poste del paese; la madre Clotilde Zavattiero è casalinga.
1925 – Muore il padre, e la madre diviene portalettere.
1935 – Completato il periodo dell’obbligo scolastico, inizia gli studi presso la Scuola “Pietro Selvatico” di Padova. Ha come insegnante di plastica Luciano Minguzzi, allora ventiquattrenne.
1938 – Passa all’Istituto d’Arte di Venezia, avendo come insegnanti Giorgio Wenter Marini e Attilio Palafacchina.
1942 – Avvia il rapporto con Igino e Franco Cavallini di Pove del Grappa entrando nella loro ditta di lavorazione artistica del marmo come maestro d’arte. Attiva corsi serali di disegno per giovani apprendisti ed operai marmisti.
1943 – Inizia a frequentare l’Accademia Belle Arti di Venezia dove ha come maestro di Plastica Arturo Martini. Dal 1946 al 1947 in questa cattedra succederà Alberto Viani.
1945 – Prende stabile alloggio a Pove del Grappa.
1945-1946 – Nell’inverno tiene un corso serale di disegno finanziato dal Comune per giovani apprendisti ed operai del marmo.
1946-1947 – Entra in stretto rapporto di amicizia con il ceramista Romano Carotti con il quale condivide lo studio-laboratorio al Majo nel borgo di Angarano (via Volpato). Ha inizio l’interesse per la ceramica.
1947 – Entra in rapporto di lavoro con il marmista Antonio Stoppiglia col quale avvierà successivamente la società di lavorazione dei marmi.
1947 – Insegnante di scuola media e liceo scientifico. Fino al 1983.
1947 – Si diploma all’Accademia veneziana con Alberto Viani.
1948 – Il laboratorio Andreose-Stoppiglia e lo studio di Andreose vengono trasferiti in via Piave.
1948 – Riceve l’incarico per l’insegnamento del disegno presso la Scuola Media J. Vittorelli e presso il neocostituito Liceo Scientifico di Bassano del Grappa su indicazione del Prof. Carmelo Tua, Direttore del Museo Civico, Biblioteca e Archivio.
1948 – Conosce Maria Finali, che nel 1952 diventerà sua moglie.
1948-1951 – Ha come aiuto ed allievo Natalino Andolfatto già incontrato nei laboratori e nei corsi serali di Pove.
1951- Con Renata Bonfanti, Federico Bonaldi, Romano Carotti, Toni Fabris, Vito Pavan, Gino Pistorello, Andrea Remonato, Sergio Schirato ed Ennio Verenini fonda il Circolo Artistico Bassanese, che sarà centrale organizzativa di esposizioni periodiche dedicate ai soci e manifestazioni espositive di più complesso impegno organizzativo e spaziale, avendo come sede la saletta del Pick Bar in Piazzotto Monte Vecchio con la gentile, entusiastica ospitalità della proprietaria Luisa Giubilato (“la Luisa” ben nota in tutto il Veneto). Andreose ne sarà il presidente ed anima fino alla sua morte.
1952 – Sposa Maria Finali dalla quale avrà quattro figli: Alessandra (1952), Gemma (1955), Francesca (1959), e Alvise (1973).
1963 – E’ tra i promotori della mostra di Marco Ricci.
1964 – E’ tra i fondatori dell’Associazione Amici del Museo di Bassano del Grappa e ne sarà Presidente fino al 1967.
1964 – Promuove con la determinante partecipazione del Lions Club e dell’Associazione Amici del Museo la mostra antologica di Luciano Minguzzi nella sale di palazzo Sturm.
1965 – E’ nominato Presidente della Commissione Comunale di Edilizia e di Ornato, carica che gli verrà rinnovata fino al 1987.
1967-1968 – E’ nominato Presidente del Lions Club e in questa veste si fa promotore della Mostra del disegno contemporaneo, curata dal Direttore del Museo Civico Bruno Passamani, che allinea nelle sale del Palazzo Sturm oltre duecento fogli di sessantatré maestri della scultura italiana ed una vasta selezione di grafica internazionale della celebre Raccolta di Achille Cavellini.
1970 – E’ attivo e determinante sostenitore della Mostra di Fortunato Depero promossa dal Comune di Bassano del Grappa e dalle locale Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo, che riproporrà all’attenzione della critica la personalità del grande artista, allora scomparso da un decennio e quasi dimenticato.
1982 – Cessa l’attività didattica e si dedica interamente all’arte.
1987 – Il 19 marzo muore improvvisamente nella sua di Bassano del Grappa.
(da”Andreose scultore” Gilberto Padovan Editore, Vicenza, 1993.)
DANILO ANDREOSE – VITA ED OPERE
Tra coloro che in questo secolo tanto hanno contribuito non solo ad illustrare Bassano col proprio lavoro creativo, ma ad arricchirne profondamente la cultura e, stabilmente, il volto urbano, va senza dubbio segnalato Danilo Andreose.
Nato ad Agna il 9 agosto 1922 ed educatosi con gli studi medi e superiori a Padova e alla Accademia a Venezia, quindi, anagraficamente e per la prima formazione, più prossimo agli spiriti di Altichiero e di Donatello che a quelli di Jacopo da Ponte e di Antonio Canova, nondimeno tanto profondamente assimilò i caratteri più peculiari e genuini dell’ anima bassanese, che la distinguono nel ricco e vivissimo contesto veneto, da divenire elemento determinante ed insostituibile della vita culturale e civile, la cui presenza si faceva sentire anche ben oltre i confini di questo pezzo di marca ezzeliniana. Il fatto è che la sua personalità e la sua cultura, pur se profondamente improntate (Danilo era di solide convinzioni culturali ed etiche), erano estremamente aperte (e lo furono fino alla fine) ad assorbire quanto egli sentisse alimento buono e intelligente, e una tale disponibilità ne favoriva la spinta al contatto, alla socializzazione, alla aggregazione.
Anche se non fosse stato l’artista che le opere, ora orfane della sua presenza e quindi affidate unicamente a se stesse, ci assicurano che fu, tramandandone una memoria che solo il valore della forma rende indelebile, egli avrebbe meritato comunque la segnalazione che si riserva agli “illustri” bassanesi: se non altro perché generazioni e generazioni di concittadini (modesti lavoratori, operatori medi, professionisti) avevano ricevuto un’impronta formativa dal “professor” Andreose (che poi molti avrebbero chiamato Danilo), il quale non si limitava ad insegnare il Disegno nella media cittadina, ma vi aggiungeva qualcosa di meno curricolare e più umano, che finiva col dare un po’ di luce anche a chi inciampava col lapis nel righello e macchiava di china il foglio Fabriano.
II suo non fu affatto un insegnamento arido e lontano dalla vita bensì un dialogo permanente con gli altri, un modo per partecipare costruttivamente al contesto comunitario e soddisfare una sua intima esigenza sociale, che si esprimeva in quella costante disponibilità a qualsiasi iniziativa, privata o istituzionale, che andasse nel senso del comune arricchimento.
E un altro titolo che ne illustra la memoria è la sua presenza preziosa ed autorevole nella vita culturale e civile locale, a partire dal ruolo giocato nella costituzione e gestione del Circolo Artistico Bassanese (il memorabile CAB che ebbe sede al “Pick Bar” di Piazzotto Montevecchio), scena, negli anni Cinquanta e Sessanta, di incontri ed eventi artistici e culturali che agitarono l’apatica Bassano di allora, ma furono anche tra i più vivi del Veneto, per venire all’ apporto promozionale ed organizzativo nella valorizzazione di Palazzo Sturm con esposizioni di livello internazionale come quelle di Marco Ricci, di Luciano Minguzzi, del Disegno contemporaneo, di Depero, che furono, tutte, delle vere e proprie scoperte critiche.
Per finire alla sua costante presenza nella Commissione comunale di edilizia e di ornato: chi gli fu collega in quella sede sa con quale scrupolosa attenzione ne condusse per più di un decennio i lavori settimanali, sempre preoccupato di far convivere in una sintesi armonica i diritti e i valori dell’ambiente naturale e della storia architettonica con le esigenze della moderna collettività, con quelle del progresso urbanistico e dell’architettura contemporanea.
In occasione della retrospettiva a lui dedicata nel giugno 1993 i più affezionati colleghi d’arte ed amici hanno consegnato al catalogo alcune testimonianze preziose, ciascuna delle quali ravvivata dal calore del particolare tipo di rapporto e quindi tutte di grande presa sentimentale e di speciale interesse: ma, accanto al risalto tenuto dalla innata felicità creativa e dalla decisa personalità artistica di Danilo, tutte concordano nel sottolinearne l’umanità, in particolare il dono, sempre più raro in questi tempi, di dare anche al rapporto di lavoro la ricchezza del rapporto umano, e la fede nel ruolo della cultura come strumento di promozione della dignità umana e di elevazione sociale.
Non è un caso che a Pove, dove era arrivato nel 1942 al termine degli studi superiori all’Istituto d’arte di Venezia, per lavorare come maestro d’arte nel laboratorio di marmi artistici di Igino e Franco Cavallini, egli conducesse quei corsi serali di disegno per giovani apprendisti ed operai scalpellini, che rimasero memorabili, tanto contribuirono ad elevare il livello della manodopera povese, in una situazione che ancora non soffriva a causa della dequalificazione del lavoro manuale e della decadenza e scomparsa di un’illustre tradizione marmorara fiorita per secoli ai piedi del Grappa, che si sarebbero progressivamente imposte a partire dagli anni Sessanta con l’affermarsi su scala sempre più larga dei processi meccanici. Come ama ricordare Natalino Andolfatto, che fu tra quei fortunati apprendisti, fin da allora stupiva quella sua capacità di modellare una figura o una composizione con una rapidità e sicurezza rare, impostando la figurazione su di una dialettica estremamente vitale di plasticità e pittoricismo.
Sono le caratteristiche di uno che ha la scultura nel sangue; nel 1941, non ancora ventenne, era stato accettato ad una collettiva giovanile alla Bevilacqua La Masa e l’anno dopo alla XXIII Biennale con un bassorilievo in gesso dal titolo Posta di guerra, ispirato alla madre postina ed alla
cronaca di un tempo, in cui l’arrivo di una lettera o di una cartolina dal fronte era atteso con animo trepidante: l’impostazione plastica fluida e insistita sui valori luminosi, che dava alla composizione immediatezza di racconto, rivelava doti di autentico artista, ma faceva capire anche con quanta attenzione Andreose aveva studiato quel Donatello, che egli considerò sempre il maestro in assoluto. Se di “fase donatelliana” vera e propria possiamo parlare per tutti gli anni Quaranta – evidenziata soprattutto dai due bassorilievi Deposizione, del 1946 (esposto e premiato alla Mostra d’Arte Sacra di Bergamo, in quell’anno) e Bassorilievo, del 1951 -, dobbiamo dire che i bronzi padovani rappresentarono per lui un punto costante di riferimento, assieme alla scultura etrusca e romanica.
E non si può neppure trascurare l’incontro alla Scuola d’Arte “Pietro Selvatico” di Padova con un insegnante come Luciano Minguzzi, che da Parigi portava memorie di Rodin e di Despiau. E’ solo in questo quadro culturale che va considerato il rapporto con Arturo Martini, suo maestro all’Accademia veneziana tra il 1943 ed il ’47, e che si spiega perché Andreose, pur incantato dalla seduzione dello scultore trevigiano e confessandola in tanti momenti della sua arte (specie nella produzione in terracotta e ceramica), a differenza di altri, che riuscirono solo a rifare il verso al maestro, abbia saputo anche nei momenti di maggiore aderenza, esprimere una sua propria genuina freschezza di linguaggio.
Tuttavia, non si potrebbero comprendere del tutto le modalità che presiedettero non solo alla formazione, ma anche alle scelte iniziali e fondamentali del nostro artista, senza tener conto di un altro importante fattore: che Andreose non fu un prodotto della serra scolastica o accademica e non regolò mai la propria attività secondo le regole di quel mondo o, più in generale, secondo i rituali tipici del “sistema” dell’ arte. Egli fu infatti uno scultore da cantiere, se così si può sintetizzare quella condizione di artista-produttore, di artefice, che gioca costantemente i livelli e l’autonomia della propria creatività sulla scala delle funzioni e delle destinazioni, in un rapporto dialettico con lo spazio e l’architettura, con le funzioni significanti e/o decorative, con la committenza.
A chi gli parlava di autonomia dell’arte Andreose ribatteva che le condizioni prime dell’arte erano l’umiltà e l’amore: con questa espressione riscopriva l’antica tradizione dei magistri lapidum , capaci di passare dalla gioia tattile del semplice fregio di foglie allo strazio solenne di una Deposizione, mantenendo sempre un rapporto vivo, d’amore, appunto, con la materia.
Nel periodo passato nella bottega Cavallini di Pove e successivamente – dal 1946 fino agli anni Sessanta – nel sodalizio di lavoro con l’artigiano marmista Antonio Stoppiglia, che vide l’apertura del laboratorio in riva al Brenta, in Margnan, a qualche decina di metri da Ca’ Erizzo, Andreose ideò e realizzò di tutto: dai fregi più semplici a decorazioni tradizionali per destinazione architettonica a quelli dei fonti battesimali o dei pulpiti, dai paliotti d’altare ai rilievi o alle sculture per portali e sepolture, dalla statuaria alle composizioni plastiche di soggetto sacro e profano.
Benché le necessità economiche spingessero in senso inverso, egli fu sempre restio a concepire una siffatta produzione nel suo mero significato commerciale, sostenendo che la dignità dell’arte aveva cittadinanza ovunque ed imprimendo di conseguenza anche al prodotto di routine originalità di soluzioni formali e compositive e gusto forte e severo nel trattamento.
Erano anche questi, i segni eloquenti della libertà rivendicata nel confronto con una committenza restia al nuovo, che egli era riuscito ben presto a piegare dalla sua parte, ovviamente non senza difficoltà, sempre superate, tuttavia, grazie alla sua intelligenza ed alla sua preparazione culturale
(anche quella biblica, indispensabile per evitare gli schemi preconfezionati dell’ iconografia sacra corrente), alla sua cortese, sempre sorridente determinazione nel sostenere i propri punti di vista, ma in primo luogo mettendo in gioco la sua rigorosa professionalità, che anche negli ambienti non direttamente investiti dalle problematiche artistiche gli aveva guadagnato apprezzamento e rispetto.
A dimostrazione di ciò, nel 1948 avrà l’incarico per l’insegnamento del disegno presso il neocostituito Liceo Scientifico di Bassano, avvallato da una personalità non certo facile agli entusiasmi come il professor Paolo Maria Tua, allora direttore del Museo, Biblioteca e Archivio di Bassano, ove è conservato il suo penetrante ritratto scolpito in candido Carrara da Andreose, a testimonianza della reciproca considerazione che legava l’anziano ed autorevole esponente della cultura cittadina ed il giovane artista, ma anche delle doti ritrattistiche di quest’ultimo, confermate successivamente da altre prove del genere, in primo luogo dalla forte testa di Cesco Baseggio. Verrà, qualche anno dopo, la cattedra di ruolo presso la Scuola media “J. Vinorelli”, che avrebbe lasciato solo per raggiunti limiti di età, nel 1983.
Il conseguimento di un più che decoroso livello sociale e professionale (significativamente omologato dalla collaborazione continuata con un avviato studio di progettazione come quello Bonfanti e con quello dell’allora esordiente architetto Gino Ferrari) e l’inserimento pieno nell’ambiente bassanese sono accompagnati da una serie di importanti commissioni, tra le quali si debbono ricordare il paliotto con il Cenacolo, scolpito per la chiesa di San Bonaventura di Bassano (1948), e la forte Pietà per la Tomba Marin nel Cimitero di Bassano (1948), marcata da una contenuta, virile drammaticità, che richiama, accanto a Donatello, l’espressività del gotico.
A partire dagli anni Cinquanta non vi sarà iniziativa culturale e, particolarmente, artistica che non veda la partecipazione di Danilo: nessuno poteva farsi indietro davanti al suo entusiasmo trascinatore, che sapeva trovare sempre la via per realizzare al meglio iniziative coraggiose, qualificandole e dando ad esse la dovuta risonanza fuori dalla ristretta cerchia cittadina, grazie anche ad una rete di conoscenze personali nel mondo dell’arte e della critica. Basti pensare all’interesse che seppero destare le iniziative del Circolo Artistico Bassanese, il sodalizio fondato nel 1951 da lui con Renata Bonfanti, Federico Bonaldi, Romano Carotti, Toni Fabris, Vito Pavan, Gino Pistorello, Andrea Remonato, Sergio Schirato ed Ennio Verenini, i più intelligenti e vivaci operatori nel campo dell’arte e delle arti applicate (la ceramica, in primo luogo, ma anche il tessuto e la decorazione), senza il contributo di idee e di esperienze dei quali sarebbe difficile capire come Bassano riuscì a mantenere quel tono non provinciale nella propria immagine di città d’arte e, in particolare, salvare nella produzione di non poche delle sue attive botteghe artistiche quel livello di originalità e di dignità formale che la distingue dalla piattezza e ripetitività diffuse nel cosiddetto artigianato d’arte.
In un momento di contrapposizioni infuocate tra credi artistici diversi (l’antitesi tra poetica figurativa e poetica astratta raggiunse negli anni Cinquanta punte polemiche oggi inconcepibili, degenerando nello scontro politico) Andreose e la direzione del Circolo seguirono la strada dell’apertura a tutte le concezioni formali, preoccupandosi unicamente che fossero sorrette dall’impegno per la qualità e dalla coerenza. Come avviene quando un sasso cade nell’acqua immota, il vivace clima che si respirava al ‘Pick Bar” si espandeva ben oltre quell’ angusto spazio, oltre il portico e l’invaso antico di Piazzotto Monte Vecchio, coinvolgendo la città, ma aspirando anche a spazi più ampi, come se fosse portato dai moti dell’aria balsamica che viene dal Canale di Brenta e dal Grappa: basti ricordare l’interesse col quale si guardava alle varie edizioni del “Premio Bassano” , promosso dal Circolo e animato da Andreose.
Gli anni Cinquanta furono felici sia sotto l’aspetto privato che sotto quello artistico: nel ’52 sposò Maria Finali, la quale gli sarà accanto compagna inseparabile della vita, ma pure di ogni esperienza di lavoro e artistica, e che noi tutti imparammo a chiamare “la Maria”, condensando pure noi in questo modo l’affetto, la stima ed il rispetto, che si avvertivano sempre nel tono con cui Danilo pronunciava il nome della moglie, evocando una presenza più vera di quella fisica; se poi guardiamo al versante artistico, quel decennio rappresenta un capitolo ricco di risultati e decisivo anche per gli sviluppi successivi.
Il decennio si apre con la scoperta della ceramica: tema sempre ineludibile, per chi viva tra Bassano e Nove; il clima di allora, poi, era particolarmente animato dal confronto fra tradizione (oscillante tra nostalgie settecentesche e modelli floreali o naturalistici) ed innovazione, rappresentata, quest’ultima, per un verso, dal purismo classicheggiante del ‘design” di Gio’ Ponti, per l’altro, dall’impostazione che Andrea Parini, di Caltagirone, veniva dando alla Scuola d’Arte novese con il suo stile personalissimo, singolare impasto di tradizione calatina e di libere escursioni nei territori del primitivismo e del postcubismo: questo era il verso più vivace ed articolato, che vedeva affermarsi, accanto a personalità giovani, ma già definite, come Pompeo Pianezzola ed Alessio Tasca, spiriti irrequieti come Cesare Sartori e Federico Bonaldi, ancora allievi della Scuola.
Andreose condivise lo studio con un’altra personalità molto marcata sul piano culturale e della creatività: Romano Carotti, purtroppo scomparso prematuramente, ma sempre ricordato da lui con tanto affetto e nostalgia per gli arricchimenti avuti da quel sodalizio non limitato allo scambio di esperienze artistiche e tecniche, ma sostanziato, oltre che di contenuti di varia cultura, di sensi umani e civili.
Alla ceramica egli si dedicò, com’era suo costume, con pienezza di entusiasmo e quel che più conta, con risultati più che felici, comprovati anche da numerosi riconoscimenti nazionali: in quella tecnica egli ritrovava nuovi spazi di ricerca formale e di espressività, senza i limiti impliciti nelle modalità della scultura in pietra; libero di misurarsi in sede creativa con un materiale duttile e sensibile al più leggero soffio dell’ idea artistica, di esplorare anche i minimi effetti del modellare sul piano compositivi e chiaroscurale, di soddisfare anche quella inclinazione al colorismo che è propria dell’ animo veneto, Andreose recuperava la felicità creativa del superamento della forma chiusa e del formare di getto, impressionisticamente, si potrebbe dire, lasciando la materia nel vivo del suo farsi al punto di massima fragranza e vitalità, quasi che dovesse essa stessa compiere l’opera, aiutata dalla luce e dallo spazio reali. Egli rincorreva così, con le proprie gambe, la grande lezione di Martini, giungendo fino al vibrante lirismo espressivo dei bozzetti bassanesi e possagnesi di Canova, i cui aspetti di immediatezza venivano proprio in quegli anni “scoperti” da Elena Bassi e da Licisco Magagnato, mentre con la consueta genialità Carlo Scarpa ne offriva una rivelatrice lettura museografica nella pura spazialità e nella luce poetica della sua addizione alla Gipsoteca di Possagno.
Qualche non passeggera riflessione l’avrà fatta pure Andreose: non è un caso, io credo, che Andreose abbia partecipato alle iniziative bassanesi per il secondo centenario della nascita del Maestro e curando, con gli amici Gino Ferrari, Sergio Schirato e Gino Barioli, subentrato a Magagnato nella direzione del Museo, l’allestimento di una sezione canoviana permanente, ove quei particolari aspetti dell’arte del Possagnese erano messi in grande risalto.
Appartiene allo stile di questa stagione fertilissima un mondo di vivacissime figurine, la cui esplosiva vitalità si affida alla fragilità di una materia sempre lì lì per consumarsi nella luce, talvolta impreziosita dagli effetti cromatici, dalle note forti dei blu-cobalto, dalle carezze rabbrividenti dei bianchi. Celebri i Presepi, che valsero premi e segnalazioni, ma che egli amava distribuire, incurante del loro valore, come un poeta generoso e sorridente dona le proprie “briciole” liriche, tra gli amici ed i soci del suo Lions.
L’esperienza ceramica si espresse tuttavia anche in composizioni monumentali, legate all’ architettura: basti ricordare, fra i tanti, i pannelli creati tra il 1952 ed il ‘55 per i cinematografi Astra di Bassano, Ristori di Ferrara, Odeon di Rovigo, Rossini di Venezia ed il fregio per la Tomba Lancini nel cimitero di Bassano (1958), nobilitato dallo stesso raffinato cromatismo che ritroviamo nelle ceramiche di piccolo formato. Fu un’esperienza che pesò non poco anche nel rimettere in discussione il rapporto che fino allora Andreose aveva avuto con la pietra e il marmo, che restavano pur sempre i mezzi espressivi formalmente privilegiati.
Ma ancor prima che riflettersi nella scultura per “levare”, l’arricchimento tecnico e formale si constata nel modo col quale egli risolvette il non facile tema del Monumento ai Marinai, realizzato nel 1957. Definirlo monumento è, invero, fuori luogo: si tratta infatti di una lastra bronzea all’esterno del Palazzo Pretorio, nella quale la figurazione commemorativa si affida ad una disadorna ed antiretorica composizione di due giovani marinai, uno supino, bocconi l’altro galleggianti nell’impalpabile e trasparente fluido del mare leggermente increspato in cui il bronzo é stato trasformato dal sapiente e raffinato modellato pittorico. Come la figura modellata dieci anni prima per il Monumento al Partigiano di Granezza, l’opera si dichiara intenzionalmente estranea ai canoni della celebrazione e dell’eroico (esclude anche la dimensione mitica del nudo, accolta nel primo): vi si traduce piuttosto, un momento di intesa e sofferta meditazione sul tema della guerra e della morte, che i corpi dei due giovani, restituiti intatti dalla risacca alla sfera della nostra coscienza, sembrano rifiutare in un estremo, composto tentativo di ricongiunzione alla vita. La lettura del rilievo spiega meglio di ogni altro discorso la posizione negativa di Andreose nei confronti di ogni ritualità: posizione riconfermata anni dopo (1971) dal Monumento a Padre Pio, realizzato per il paese natale di Pietralcina, che fu prova non lieve di resistenza alla celebrazione, per i significati molteplici che in tale impresa ed ancor prima nella figura del celebre francescano si voleva, evidentemente, far risaltare, in un momento poco disponibile ad un giudizio sottratto alle enfatizzazioni di vario ed opposto segno. Si deve dire che la soluzione imposta da Andreose di dare risalto all’umanità ed alla pietas dell’effigiato, affidandole ad un rapporto di amore, umanissimo, con dei giovani fraticelli, costituisce un caso raro nel monumentalismo commemorativo di committenza ecclesiastica, un caso che possiamo considerare, tuttavia, in linea con gli indirizzi nell’arte sacra favoriti da Paolo VI (1962-1978).
Il rapporto col marmo e la pietra rinuncia progressivamente alla figurazione per riconoscibili anatomie e nessi logici e sintattici, per attivare un sistema di forme essenziali e forti che si impongono nelle loro emergenze materiche entro un tessuto chiaroscurale contrastato: opera significativa in questo percorso è Il miracolo, del 1954-55, cui segue, nel 1958, il bassorilievo della Pietà, scolpito in un lastrone di Travertino per la Tomba Gasparotto nel Cimitero di Bassano. Entrambe sculture aspre, tormentate dai ferri generalmente impiegati per lo sbozzo e lasciate, quindi, in un apparente stadio di “non finito’. Ai marmi di granitura sottile vengono allo scopo preferite le pietre più disponibili ad un siffatto obiettivo formale, come quelle di Asiago o di Verona, oppure, appunto, il Travertino. Nel processo di progressiva semplificazione, che ai dettagli descrittivi ed ai nessi compositivi e spaziali viene via via sostituendo un discorso plastico di contratta sintesi, basato sulla combinazione ritmica di elementi volumetrici e lineari, il Nudo del 1964 costituisce una tappa fondamentale: vi riconosciamo i dati chiave della nuova poetica di Andreose – massa plastica, materia, ritmo – felicemente combinati in una sintesi armonica basata sul gioco spiralico di volumi e vuoti attivi, di effetti chiaroscurali funzionali all’ organicità della forma dinamica, resi vibranti e preziosi dal trattamento a gradina delle superfici del marmo di Carrara. Con il Nudo il nostro artista dichiarava una precisa scelta di campo: quella di una scultura che possiamo definire “biomorfica, avviata da Brancusi, ma impostata nella sua specificità linguistica da Arp e da Moore; in Italia praticata con coerenza e con singolarità di risultati da Viani. Andreose si collocò su questa strada con una sua propria impronta personale, con un suo proprio campo di esplorazione: restituire l’essenza materiale e ritmica, inventare le metafore formali di un senso del tempo (anche della storia) e della natura, che erano venuti spogliandosi nella sua visione delle cose delle referenzialità più esteriori e banali proprie dell’ esperienza empirica. Già Nudo, con le sue evocazioni anatomiche, si offrì come una metafora del corpo o, più, dell’eros femminile nella sua sostanza germinale; le sculture che vi si possono affiancare in una lunga sequenza che giunge fino al termine, giocheranno sempre più sull’ ambiguità tra i riferimenti antropomorfici e quelli al mondo naturale, all’idea della gemma, dell’inflorescenza, della conchiglia. L’esplorazione dello scultore viene penetrando sempre più negli strati emotivi della propria sensibilità, ove si fa via via più difficile ma anche sostanzialmente inutile, separare tipologicamente i referenti. Può anche essere legittimo chiedersi quanto giochi il sentimento del medium, cioè la conoscenza perfetta delle interne strutture e delle proprietà delle materie manipolate, ed altrettanto chiedersi sul ruolo dei processi formativi. Andreose fu scultore completo, in grado di realizzare la propria espressività attraverso le specifiche proprietà dei diversi materiali: anche nel legno, oltre che nel marmo, nella ceramica e nel bronzo. Se esaminiamo la serie dei bronzi realizzata tra il 1972 ed il ’73 (Guerriero, Ettore e Andromaca, Paolo e Francesca, Vincitori e vinti), constatiamo quanto il flusso della storia e del mito tenda ad identificarsi col fluire indistinto delle cose, assimilando ai segni di un contesto biomorfico polivalente le sembianze corporee ed i connotati “storici” dei diversi attributi: eppure il particolare trattamento plastico e compositivo fa sì che il processo di metamorfosi salvi il livello indispensabile o, meglio, la forza emotiva della referenzialità, consentendoci di “sentire” in modo diverso i bronzi or ora citati a confronto con le germinazioni o le anatomie femminili fuse tra il 1969 ed il ’70. Operare sulla cera gli consentiva di mettere a frutto e sviluppare l’esperienza gestuale condotta a suo tempo nella modellazione della creta; e di lasciarsi andare al gusto dell’ invenzione umorale, del fraseggiare fresco e un poco autodemistificante, da “ciàcola” alla veneta, che sempre fu per lui una tentazione irresistibile: ed ecco nascere quei bronzettini di grande immediatezza che accompagneranno, come una sorta di “divertissement”, l’attività a partire dagli anni Sessanta, alimentando via via un popolo di felici saltimbanchi, giocolieri, ballerine, di attori vivaci di un diario imbevuto di quell’ umanità e terrestrità che Andreose, rimasto attaccato alla concretezza delle sue origini popolari, considerò sempre la radice vitale, il richiamo alla realtà, all’amore per la vita.
Un tale amore poteva riflettersi in quei bronzetti, che potremmo accostare a certi “scherzi” musicali – tocchi leggeri e via – come pure nell’impegno a fissare le sembianze di un carattere umano: l’abbiamo visto per i ritratti di Tua (il professore raffinato e austero), di Cesco Baseggio (l’attore popolano, dai tratti forti del viso, come quelli dei suoi personaggi goldoniani), di Padre Pio, quell’affermazione d’arte figurativa (ma non “illustrativa”) caduta nel pieno svolgersi dell’esperienza delle sintesi biomorfiche. Un amore particolare, un’intensità di riflessioni su quella breve vita innocente rapita ai suoi cari, ma presente in quello sguardo dolcissimo, cogliamo nell’ inquietante testa della piccola Gaia modellata per la Tomba Basso ancora una volta nel Cimitero bassanese, essa pure di quel periodo, essendo del 1976.
Pur se l’aspirazione ad una plastica di grandi dimensioni incontrò solo in pochi casi occasione per realizzarsi, le caratteristiche compositive e volumetriche delle opere di Andreose ebbero sempre un respiro monumentale: basta ricordare i rilievi in pietra del tipo L’unione delle Chiese, Concavo e convesso, Pilastro, Amanti, tra il 1968 ed il ’70.
Così non capita mai, come invece succede per altri, che la traduzione dal bozzetto o dal modello in scala ridotta all’opera in grande comporti scadimento di valori e di tensione plastica. Lo si può accertare confrontando il modello dell’Amazzone e la sua traduzione a scala assai maggiore nel bel Rosso di Asiago, esposta nel 1975 in Prà della Valle a Padova, in occasione del X Premio del Bronzetto e della Grande Scultura, nella quale il pensiero artistico risulta fortemente esaltato proprio dalle dimensioni. Vi troviamo sviluppata la linea dei bronzi raggruppati attorno a Paolo e Francesca: ma qui l’antropomorfismo è un dato remotissimo ed il fatto compositivo marca una fase di più severa e compenetrata architettura e di più sintetico articolarsi di volumi ad andamento sferoidale, in direzione esplicitamente organica e biomorfica.
Cogliamo nella serrata sintassi volumetrica, in quell’ organizzarsi attorno al nucleo sferico che affiora all’ interno, la genesi di una forma sviluppata sui 360°, chiusa come una gemma, una conchiglia o una corolla, ma anche disponibile ad aprirsi, rivelando l’interno delle proprie valve ed il loro contenuto, realizzando un succedersi inesauribile di soluzioni plastico-dinamiche e spaziali che traggono le loro qualità formali anche dalle particolarità materiche e cromatiche dei diversi marmi utilizzati. Il pensiero plastico si invera ora anche nell’estrazione degli effetti più sottili consentiti dal trattamento delle superfici di marmi pregiati, selezionati in ragione delle particolari granulometrie, colorazioni e striature, oppure lavorando sulla sostanza calda delle masse lignee o sulle patine del bronzo.
Andreose toccava così la stagione di una felice, fertile maturità. Della ricchezza di connotazioni raggiunta nel corso di un decennio, a partire grosso modo, dal 1975 (a poco più di cinquant’ anni), si poterono verificare i risultati in occasione della sua partecipazione alla mostra che nel 1982 Bassano dedicò ai suoi tre maggiori scultori – Andolfatto, Andreose, Fabris – ospitandola nel chiostro e nelle sale terrene del Museo Civico. A proposito di questo evento, credo importante trascrivere, senza commento, un passo di Andolfatto, tratto dal catalogo della retrospettiva dello scorso 1993: “Più tardi ho avuto altri motivi per stimarlo, non solo come scultore, ma anche come uomo generoso e disinteressato. Gli avevano proposto una mostra tutta dedicata a lui nel Museo di Bassano, ma lui non volle una personale, volle che ci fossimo anche noi. Fabris ed io. Chi conosce il mondo degli artisti sa che nel nostro ambiente i regali non abbondano”. Dopo la mostra e cessata proprio in quell’anno l’attività didattica, conclusa pure da tempo quella di produttore di marmi artistici, ebbe tutto il tempo per occuparsi a pieno della sua vita, della scultura, di Bassano, C’erano tutte le condizioni per un lavoro sereno. Per quasi quattro anni egli sviluppò e approfondì l’esperienza già ben rappresentata nella mostra ora ricordata. Ma chi ebbe la fortuna di visitare la suggestiva personale allestita nell’aprile del 1986 alla Galleria Nike di Milano poté entrare in un mondo solare e nuovo, un mondo di forme squisite, che si offrivano con quella semplice naturalezza che scaturisce solo dall’incontro delle doti creative con la perfetta pratica della materia e dei processi della sua lavorazione. I titoli rimandavano tutti, coerentemente, al tema della forma aperta, che aspirava a sposarsi con lo spazio e con la luce in un atto di metamorfosi interattiva: Perla, Evoluzione, Nucleo, Tulipano, Loto, Frutto, ecc. Alle opere in bronzo si succedevano sculture realizzate in marmo Pario, in Carrara, in Rosa del Portogallo, Rosso di Persia, Bianco del Brasile, Rosso Porfirico, Nero del Belgio.
Danilo aveva sessantaquattro anni: un’età che garantiva ulteriori e felici sviluppi di quel vero e proprio “momento magico”. Purtroppo quel momento era, sì, legato al tenue filo della creatività. ma anche a quello della vita.
Bruno Passamani
(DA “L’Illustre bassanese” n.33, Gennaio 1995, Editrice Minchio Bassano s.a.s.)