LANARO ROBERTO – MOLVENA (VI) 26-09-1946 – E – APPROFONDIMENTI

 

APPROFONDIMENTI 

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L’OPERA PLASTICA DI ROBERTO LANARO

di Umbro Apollonio (1980)

L’opera plastica di Roberto Lanaro reca in sé le tracce dei momenti di trapasso fra costituzione creativa ed apprendimento artigianale che costituiscono i motivi più insidiosi e più suggestivi al tempo stesso del fare arte. Problema non certo nuovo e tale anzi che già a lungo se ne discusse e se ne discute: ultimamente lo ha fatto anche Giorgio Segato in occasione della esposizione dello scultore a Marostica. La familiarità che Lanaro possiede a livello di mestiere ha fatto sì che le figure plastiche create fruissero di una elementarietà quanto mai efficiente: anche la modesta torsione di una sbarra si carica del prestigio di una forma, meglio di un coagulo formale altamente significante. Perciò fin da principio si awertì che una verifica ulteriore fra arte ed artigianato poteva condurre a rilevare gran copia di equivoci: l’uso di materiali e tecniche speciali, non che talora impropri, oppure di nuovi sussidi meccanici stimola soluzioni sfilistiche inedite. In taluni casi awiene invece che la riflessi ne teorica, anzi che saggiare la disponibilità di elementi e strumenti, imponga una determinata condotta alla quale sottoporre qualsiasi awisaglia ideativa. Ma la spinta all’ardimento maggiore awiene di solito attraverso la sperimentazione pratica, esecutiva, comunque quando il dato speculativo
è confortato dalla prova tecnica. Ora, potevasi anche supporre che Lanaro si assestasse fin dall’inizio, dati i risultati ottenuti e che non nascondevano una raggiante perizia, nell’ ambito di un controllato” materismo”, dove poteva sospingerlo il movimento così detto informale. Ma non si lasciò sedurre da ormai facili ed owii accomodamenti dove alea e ricerca, spodestando altre acquisizioni accademiche, si proponevano nuove istituzioni stilistiche, perciò altrettanto fallaci e sterili. E’ noto che l’incontro casuale può provocare scatti inaspettati di fantasia, ma questi non vanno mai ricercati a bella posta e nemmeno è detto che siano validi comunque si presentino o qualsiasi prospettiva suggeriscano. L’esperienza appunto delle modalità informali ha portato più chiara consapevolezza nell’intervento dei soccorsi esterni e dei ripieghi improvvisati, tant’è vero che, proprio in base a tale norma, anche il caso si appropria di misura umana non eccezionale. “La sbarra è un elemento preesistente, quasi struttura razionale; – ha scritto lo scultore – l’intervento ‘deviante’, di controllata razionalità, l’imprevisto, lo modifica e lo rende libero e disponibile a cambiamenti di direzione, svincolato da ogni ‘pregiudizio’ e, dunque, aperto a una molteplicità di interpretazioni: si verifica un fatto nuovo che scuote l’attenzione e l’esperienza.” Ora, il mondo che abitiamo è popolato oltre misura di interventi devianti, e spetta alla nostra intelligenza di compiere la scelta giusta, quella che può portare al centro di situazioni districabili, non accennando qualsiasi segnale ad una via necessariamente percorribile. L’errore in cui facilmente si cade è proprio questo avviarsi in direzioni svariate senza prima avenne volutato l’opportunità, e con lo scopo di trovarsi da ultim0in civoli ciechi oppure in labirinti da cui non si sa più come sortire. Non è il caso di Lanaro , che sa guardaesi da inviti fortuiti e non attentamente valutati in precedenza. Egli non ha praticato le strade dello “informale”, ma ne ha appreso la lezione alla lontana, mentre si è piuttosto accostato direttamente alle ipotesi di quel costruttiivismo particolare che potrebbe essere la “minimal” americana, nel senso che la semplificazione ribatte dovunque e scancella ogni e qualsiasi ridondanza appena ne spunti la minima evidenza per un suo manifestarsi. Perchè esiste, non lo si dimentichi, ed amche assai rischiosa, la ridondanza della materia: se ne hanno le prove nel campo della pittura, quando la pasta cromatica oppure la stesura del colore raccolgono in sé i massimi effetti della rraffinatezza fino ad annllare ogni altra implicazione di ordin spaziale. Si è lamentato da più partiche la creazione plastica si sia rifugiata nei tempi recentinon più come pareva dovesse avvenire nella confezione di un oggetto solido a tre dimensioni, e nemmeno nell’allestimento fantasticodi un ambiente, ma nel comporre per accenni che si presentano ,  proprio per il fatto essere tali, alle articolazioni più svariate ed alle interpretazioni più ambigue. Si rilevava infatti l’emergere di una disponibilità ludica delle più svariate occasioni e l’annullamento dui strutture progettate mediamente  la dislocazione dei diversi elementi che alla fin fine formano il resisuo specifiuco di una frantumazione totale. Ecco: Lanaro fa fronte  a tutto ciòe richiama l’attenzione alla più lucida e vibrante spazialità di ordine normale , e proprio dalle rette, dagli svincoli, dalle direzioni indicate, dal suo comporreper punti fermi e determinatisi adopera per trarne un complesso plastico-spaziale che sia stabilizzato entro prospettove sicure e mobili: mobili virtuosamente, beninteso, perchè prevedono una collocazione all’aperto, ed una fruizione non guidata, come poteva avvenire, poniamo, nelle opere dell’arte cinetica. Fra le presenze che attirano l’attenzione nel!’ ambito del!’ evolversi della scultura relativamente alla nuova generazione quella di Roberto Lanaro appare fra le più promettenti per il rigore e la serietà che hanno contraddistinto
il suo lavoro fino ad oggi. Il futuro gli riserva ancora lunga esperienza prima che le sue indicazioni si completino con attributi determinanti, così come fino adesso ha lasciato intendere, e sono per l’appunto le premesse apprezzate che aprono quel credito che gli spetta e non gli va negato per la correttezza
con cui si è dedicato alla vocazione accettandone rischi e pericoli senza arroganza di sorta e soltanto fidando nel sussidio delle proprie prerogative.
(Bassano del Grappa – VI, 1980)

UMBRO APOLLONIO – Trieste 20 aprile 1911 – Bassano del Grappa 22 aprile 1981 – Saggista e critico d’arte

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LANARO ROBERTO – IL MIO MESTIERE

(estratto dal catalogo della mostra presso la  Basilica Palladiana di Vicenza del 1981)

Mi sono interessato al ferro fin dall’inlanzia, perchè il mio è un mestiere ereditato in famiglia. Fin dall’età di cinque-sette anni, nei pomeriggi dopo la scuola, cominciai a seguire, imitare e aiutare mio padre in officina secondo una tradizìone che ha oltre due secoli. Ricordo, infatti, che avevamo una fucina datata 1706. Il ferro mi attraeva moltissimo: mi affascinavano le sbarre che uscivano roventi dal fuoco per essere battute e poi saldate fra loro a caldo, con una cascata di scintille che sembrava un gioco di fuochi d’artificio. Soprattutto  mi piacevano le spade. ln officina ne avevamo parecchie e di diversa misura poichè venivano adoperate per forgiare coltelli da cucina. I miei primissimi lavori ebbero questo riferimento e solo da adolescente cominciai a lavorare i ferri battuti, soprattulto per produrre oggetti  in stile antico. In quel periodo frequentavo le scuole d’arte e così presi anche a modellare le prime sculture in metallo, prevalentemente animali e figure umane stilizzate. Presto mi sentii in grado di dominare la materia, di trattarta e modificarla a mio piacimento, quasi fosse creta. Ero padrone dei segreti del mestiere e ‘innamorato’ delle qualità del ferro, una materia resistente che se conosciuta, rispettata e adeguatamente trattata diventa docilissima e quasi ‘plasmabile’. Stimolato dalla scuola,  intanto, avevo preso a studiare i maestri della scultura,  visitavo musei e frequentavo amici scultori e pittori. Cosi, ad un certo momento, non saprei dire esattamente quando, avvertii la necessità di andare oltre il mestiere per far prevalere il pensiero; cominciai a meditare e a progettare le prime forme libere tenendo come secondario il problema naturalistico-imitativo e cercando, piuttosto, di afferrare ed esprimere concetti liberamente interpretativi o di autonoma conquista dello spazio. Si aprì anche per me la tanto discussa questlone dei rapporti arte-artista e mestiere-artigiano. Comunque, io mi sono sentito sempre e mi sento soprattutto un artigiano che cerca di svolgere bene il suo lavoro secondo personali intuizioni e in costante disporlibilità di ‘informazione’ e aggiornamento con le tematiche della cultura e dell’arte contemporanee.
Adesso il mio rapporto con la materia è mutato: non è più di violenza e di lacerazione per verificare all’interno della forma un contenuto, ma muove dall’interesse di modificare,  all’esterno, lo spazio e la percezione delio spazio, senza nulla togliere o aggiungere alla materia, rispettando sempre le caratteristiche e anche le ‘esigenze’ di essa in relazione al problema formale da risolvere. La sbarra è un elemento preesistente, quasi struttura razionale; l’intervento ‘deviante’, di controllata irrazionalità, l’imprevisto, lo modifica e lo rende libero e disponibile a cambiamenti di direzione, svincolato da ogni ‘pregiudizio’ e, dunque, aperto a una molteplicità di interpretazioni: si verifica un fatto nuovo che scuote l’attenzione e l’esperienza. Inoltre, le mie sculture si propongono come misure di rapporti uomo-ambiente e la loro destinazione è principalmente quella di essere vissute a misura umana, di essere percorse e utilizzate come momento di incontro tra scultura e architettura, forma libera che disegna lo spazio esterno: non più soprammobile da collezione, l’opera intende produrre uno scontro-scambio col visitatore di informazioni e di sensazioni intorno allo spazio-forma-ambiente. Uno dei fondamentali messaggi dell’arte astrartta e dell’arte costruttivista è insito proprio nella suprema affermazione della bellezza della libertà dell’immaginazione creativa e interpretativa dell’ uomo. La piena fiducia in questa libertà ispira questa mia mostra che vuoi essere un contributo alla comprensione del presente e alla progettazione del futuro, in una continuità di valori che rifiuta le equivoche nostalgie per gli aspetti esteriori dell’arte figurativa del passato.  (1981)

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SEGATO GIORGIO – 1981

(dal catalogo associato alla mostra “Plasticità del Ferro nelle  ricerche di Roberto Lanaro – Vicenza, Basilica Palladiana,  5-27settembre 1981)

LA QUALITA’ DEL FERRO  – Nella famiglia di Roberto Lanaro il mestiere di artigiano del ferro si tramanda di generazione in generazione da oltre duecento anni. E’ naturale, dunque, che la sua ricerca plastica nasca da una perfetta confidenza con la materia, maturata nella quotidiana esperienza dell’officina, degli strumenti e delle tecniche di approccio al ferro e della lavorazione di esso. Ora, raggiunta la piena padronanza dell ‘arte’, egli sa utilizzare e lavorare i più svariati metalli (dall’acciaio inox al rame e all’ottone), ma continua a prediligere il normalissimo ferro, quello rossastro delle esperienze comuni, da recupero, per intenderci, per la sua “porosità epidermica” e per la ricchezza di sfumature dovute al processo di corrosione dell’ossidazione. Il ferro dolce è più malleabile e, dunque, molto più plastico. Fonde a 1500 gradi centigradi e a 1000 gradi ha il suo punto critico per essere battuto, deformato o modellato: a quel punto comincia il ‘mestiere’ poichè  “.. .il ferro caldo è come le donne e bisogna saperlo prendere e guidare”. Certe pieghe docilissime, a prima vista del tutto inattendibili, diventano impossibili se non si sa come trattarlo, assecondandone la struttura nello stesso tempo in cui lo si adegua alle proprie esigenze, al proprio progetto.
L’opera di Lanaro, al di là della sua valenza estetica, è meditazione manuale, ininterrotta, sulla costituzione della materia, sulla sua evoluzione e sulle sue potenzialità, evidenziando il parallelismo tra meccanismo della mente e meccanismi della materia. Per questo, Lanaro insiste a definirsi soprattutto un artigiano: anche se sfugge ormai ai condizionamenti della ripetitività del lavoro e delle forme, il suo lavoro resta fondato su un rapporto pieno con la materia, vincolato alle qualità di essa.

L’UOMO E L’OFFICINA – Un simile rapporto richiede un ambiente adatto e tutta una attrezzatura adeguata. Il suo luogo di lavoro non è lo ‘studio’ del plasticatore, ma l’officina, ampia, ricca di situazioni, di rumori, di strumenti e di acuti odori. Il fuoco, la fiamma ossidrica, l’incudine, la saldatrice, il maglio sono gli attrezzi principali cui si accompagnano strumenti sussidiari e di protezione come tenaglie, occhiali, guanti, grembiali, tute. L’officina è l’habitat più naturale e ciò rende il lavoro dello scultore in ferro più simile a quello dell’operaio che a quello dell’artista, nonostante i momenti di libertà creativa. Dietro, e a supporto economico sostanziale della ricerca plastica, c’è d’altra parte, tutto un pesante lavoro di routine: progetti, verifiche, campioni per soddisfare la committenza normale di prodotti dell’artigianato del ferro (cancellate, decorazioni, letti) legato all’immediata funzionalità. Se anche esiste questo problema di estraniazione dalle più intime tensioni e meditazioni artistiche, l’officina resta ‘casa’, ambiente amico dove ogni oggetto e ogni strumento sono stimoli a fare, a indagare, a saggiare e scoprire; dove il momento di riposo è ancora conquista di disponibilità a seguire il corso più segreto dei propri pensieri e a lavorare per se stessi. Anche perchè, per quanta dimestichezza si possa avere con il materiale, l’opera non può mai essere lavoro improvvisato, ma resta sempre esecuzione di un progetto elaborato, disegnato, verificato in una serie di bozzetti plastico-formali che seguono serie di disegni preparatori. L’officina, allora, diventa davvero “environment” totale, uno spazio-vita dove strumenti, materia, accumulo di opere, disegni, schizzi, bozzetti, residui e ritagli concorrono a creare quel cosmo di segnali che sono frutto, e fonte insieme, della poesia del lavoro di Lanaro.

PLASTICITA’ DEL FERRO – E Lanaro è davvero un poeta della materia. Egli usa il ferro, il rame, l’ottone, gli abbinamenti colore-luce, l’arte astratta, le leggi ritmiche, le aggregazioni, Ie disposizioni naturali dei materiali usati, gli interventi calcolati per ottenere movimenti ed equilibrI, ma tutto per entrare attivamente, da interprete-protagonista, in una potenzialità ignota, aperta al più elevato numero di possibilità di essere. Con libertà assoluta, non condizionato da interpretazioni di critici o di pubbl ico, Lanaro dispone la sua mente e le sue mani alle attività parallele di progettare graficamente e di produrre artigianalmente oggetti-forme isolando sempre più il suo spazio e il campo di ricerca per mantenerlo incontaminato da ingerenze esterne e garantirgli l’indispensabile pulizia e purezza di intenti. Da ciò derivano anche il rispetto dell’artista per i materiali che adopera, l‘esemplare dedizione con la quale li interroga e scopre il loro modo ‘naturale’ di aggregarsi e di significare. Grazie alla considerazione che arte, tecnica e scienza rispondono al medesimo impulso che spinge l’uomo ad affacciarsi sempre di più nello spazio intorno, superando l’egoismo animale, Lanaro rinuncia all’arte in funzione meramente estetizzante e rintraccia la matrice della ‘gioia estetica’ , che è implicita nella potenzialità espressiva che va ben oltre la funzione progettata e l’uso previsto di un pensiero, di una tecnica o di una indagine. Affrontare direttamente la sbarra di ferro è per Lanaro riscoprire l’emozione di avventura dei primi uomini (o dei bambini) quando scoprono una funzione e, oltre la funzione dell’oggetto, l’ignoto come area di inesplorate possibilità di altre funzioni. La scoperta che l’uomo non è più la misura di tutte le cose conduce l’artista a un senso molto più dilatato della libertà delle forme, poichè ogni cosa, se vista con l’occhio sgombro da pregiudizi, è capace di proiettarsi all’esterno e di porsi essa stessa come misura. I semplicissimi, ‘lineari’ elementi in ferro sui quali Lanaro interviene non corrono il pericolo di restare vincolati a preconcetti, ad aspettative formali o di contenuto, ma assumono il valore di strumenti per la esplorazione fenomenologica di uno spazio che è il nostro spazio storico, il nostro ambiente di vita.
E’ il ferro (l’antichità della materia e del rapporto artistico-artigianale,  i riferi menti arcaici, la docilità di esso nelle mani dell’esperto forgiatore) che consente a Lanaro di riprovare quella gioia ‘estetica’ di prima scoperta, di primo confronto, di primaria modellazione e trasformazione del dato materiale, cioè la gioia di una sorta di originario “imprinting” del pensiero vivificante sull’inerte materiale.

L’artista e la forma – Il lavoro di Lanaro appare allora quasi magica riappropriazione di energia creativa, meditazione sulla materia e intervento sull’esperienza dello spazio esterno, che dirottano il prodotto della tecnologia e dell ‘esercizio artigianale verso orizzonti insospettati e completamente estranei ad ogni funzione programmata. Parte dalla materia bruta, dalla sbarra di ferro come elemento da riscoprire e riordinare creando nuove realtà aperte. Ottiene, a volte, forme che infondono la sensazione di elegante e spontanea naturalezza, e che sembrano volersi confrontare con la realtà dell’ambiente, in intensi e allusivi scambi con il mondo vegetale, con l’albero e con il ramo, proponendo fantasiosi innesti. Si può ricevere anche l’impressione di una preponderante gestualità nelle torsioni e negli imprevedibili cambi di direzione degli elementi che compongono l’elementare situazione di iniziazione architettonica proposta dalle opere. Ma ciò è dovuto al fatto che nell’opera di Lanaro la geometria, nella sua accezione costruttiva o di pura forma astratta, è scomparsa, sostituita dalla logica immaginaria, eppur rigorosissima, di un intervento inventato in cui gli elementi, sottratti all’idea di uso e ai riferimenti figurali, divengono segni che compongono una immagine, del tutto nuova ma con una esattezza e una incisività che pare riacquistare un senso perduto.
Senza più divagazioni formali e allusive, la scultura di Lanaro si afferma come immagine inedita, forma autonoma, ma che offre – e propone – una analisi, un confronto fatto di accordi e di opposizioni con la realtà, l’ambiente, il disegno dello spazio interno (psiche, inconscio). ” …. Più che privilegiare l’assolutezza della forma e darla come oggetto di pura contemplazione, – ha scritto Traber – Lanaro vuole puntare sui valori che scaturiscono dalla lettura della relazione, cioè sul momento critico del fruitore, e porsi – in ultima analisi – come stimolo per un rinnovamento delle coscienze”. Lanaro, dunque, dal più semplice lavoro imitativo delle immagini tolte dalla natura, compie lo scarto sostanziale che fa dell’artigiano un artista e di un oggetto un’opera di ricerca formale ed estetica: dall’insistenza sulla riconoscibilità alla ricerca di provocazioni promozionali a livello concettuale e percettivo; dall’immagine nota alla proposta di nuove ‘misure’ dello spazio e della realtà come risultati di un costante atteggiamento critico e indagatore che nulla più dà per scontato e riconosciuto; dall’oggetto concluso alla linea aperta vettore di meditazione, confronto-scontro tra razionale e irrazionale, momento di dialogo tra uomo e ambiente.
Se il concetto di scultura si presenta ridotto a un puro rapporto tra segno e spazio, a una elementare e primaria conquista della possibilità di ridefinire e riabitare lo spazio, è perchè la provocazione di Lanaro intende porsi proprio come momento di inizio e di innesco di un processo a seguire che richiede la comprensione e l’azione di noi tutti. E’, si diceva, un riportarci alla autentica matrice della gioia estetica, una volontà di restituzione della capacità, possibilità, necessità del fare come doveroso esercizio della intelligenza e della creatività rivolte al miglioramento della qualità della vita.

Giorgio Segato – Carmignano di Brenta (PD)  12 agosto 1944  – Padova  7 novembre 2011 . E’ stato  poeta,  pubblicista e  critico d’arte)

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LA POESIA DEL FERRO IN ROBERTO LANARO

 di DINO FORMAGGIO – 1993

Il ferro non è una materia qualsiasi. Ogni materia, si sa, ha una sua precisa fisionomia, una sua specifica vita, specialmente se è materia per l’arte. Ma tutta la sua essenza originaria, tutte le sue più intime e profonde fibre espressive si fanno presenti e sembrano esploderti davanti quando una specifica materia diventa materia di scultura, si solleva e vibra fra le mani di uno scultore. È allora che bisogna intendere e vivere la più profonda natura del ferro. E la stessa scultura del ferro diventa qualcosa di più specifico, qualcosa di assolutamente caratterizzato e diverso, del tutto proprio e originale, rispetto a ogni altra forma di scultura. La scultura è l’arte che intrattiene il più diretto e organico contatto con le materie, si nutre in diverse caratterizzazioni delle materie più diverse. Per cui altro è scolpire il legno, altro è lavorare sulla cedevole creta, di nuovo altro è scolpire il marmo, ed infine altro ancora, totalmente altro, è scolpire il ferro. Che non significa affatto (o soltanto) intervenire e operare sul blocco di ferro con scalpelli e mazzuolo. Significa far nascere forme dell’interno del ferro, ma da un ferro che resti ferro, che non esca mascherato o mentito. Anzi, che celebrando la forma, rimanga interamente se stesso in tutte le sue potenzialità originarie e naturali.
Di quali potenze vive è originariamente dotato il ferro?
La vita del ferro è la vita di un cosmo, un universo con la sua storia, sue leggi, sue sensibili pulsazioni: un universo – dice Gaston Bachelard (l’autore di una delle pagine filosofiche più profonde sul “cosmo del ferro”) – per accostare il quale “conviene amare il fuoco e le materie dure, la forza. Non lo si conosce che in grazia di atti creatori educati al coraggio.” Questo cosmo di fuoco e di forze, dunque,  che è il ferro, come ogni autentico cosmo che si rispetti, possiede un’essenza millenaria propria e proprie inviolabili leggi: inviolabili per chi, come avviene soprattutto per lo scultore, ne cerca il contatto per dialogarvi e cavarne la sua più genuina espressione comunicativa.
Questo è il primo e fondamentale segreto dello scultore in ferro.
E tutto questo, in maniera eccellente, è ciò che fonda il senso primo delle sculture in ferro di Roberto Lanaro. Qui sta l’indubbia autenticità e il sicuro valore della sua conoscenza e della sua diuturna operazione d’arte. Qui sta il vero valore di queste sue sculture in ferro, che sono talmente “ferro”, talmente atto di fedeltà alla originaria e autentica natura del ferro, da costituire un rifiuto consapevole di tutto quello che può essere, o anche solo diventare, camuffamento o riproduzione mimetica di qualche realistico corpo oggettivo, e insieme il rifiuto rigoroso di qualsiasi cedimento a qualche curva sentimentale o a qualche allettante piacevolezza. Diritta e forte, severa ed essenziale, tutta raccolta nelle sue potenzialità ferrigne, non d’altro parlando che di se stessa, nasce dalle mani dello scultore – fabbro, del fabbro-scultore, la forma vivente dell’opera di Lanaro che, fiera della sua libera autonomia, non ha bisogno di esterne sovrapposizioni di riferimenti o di richiami ad altro, ad oggetti o forme d’altra natura.
Tutta l’arte contemporanea ha ostinatamente perseguito una ricerca di purezza e di originarietà delle forme. Certamente ha dovuto lottare contro ogni tentazione di compiacenti concessioni al gusto comune o più volgarmente commerciale, alle quali tentazioni non pochi hanno finito, per debolezza o bisogno, per piegarsi e soggiacere. Ma la validità della direzione di fondo, che ha costituito tanta parte di una crescente valorizzazione della genuinità delle forme e dei materiali (nonché del loro interno inscindibile rapporto) rimane ancora oggi la lezione fondamentale dell’intero corso dell’arte contemporanea. Tutto ciò è particolarmente evidente nell’arte che, forse più di ogni altra, vive in stretto legame di nodi vitali con le materie: la scultura. Ed è per questo che l’opera di scultura di Roberto Lanaro attinge alla attualità più profonda e realizza una libertà ed una autonomia di notevole validità.
Certo lo scultore del ferro meno di ogni altro può improvvisarsi scultore. Nessuna vocazione artistica, come questa, può nascere di colpo bell’e fatta, dal semplice volere della mente e uscire tutta intera come Minerva dal cervello di Giove. La sua strada viene da lontano e richiede una lunga storia, un lungo tirocinio di sapienze artigianali e di perfezionamenti manuali e formali. Lanaro viene da questa lunga storia. Quando nasce a Molvena (Vicenza) il 26 Settembre 1946 – la sua casa natale risuona del cantico potente e ritmico del martello sull’incudine vibrante del padre suo, intento alla sua opera di fabbro. Di più, nell’officina paterna (che è la stessa nella quale ora Roberto Lanaro ogni giorno lavora) aveva già prima lavorato il padre del padre e intere generazioni della medesima famiglia di fabbri, se è vero che ancora Roberto ha fra le sue più care memorie d’infanzia il ricordo di una grande forgia a mantice che portava incisa la data del 1706, nientemeno. Come si vede la fabbrilità del ferro in Lanaro viene in modo eccezionale da molto lontano e gli fermenta da sempre nelle vene delle generazioni. Questo dà ragione anche della estrema naturalità con cui Lanaro viene incontro alla sua arte e alla curiosità del mondo. Tranquillamente opera con la sicura e silenziosa moralità interiore dell’antica gente, quando chi operava, artigiano o artista che fosse, non andava all’arrembaggio dei compratori più o meno violentati, non si riteneva Dio o divo, non imponeva astruse megalomanie delle sue opere, ma in non altro si riconosceva se non nella probità e nel buon compimento del proprio quotidiano lavoro. Il che, per i tempi che corrono, non è davvero poco, se si può ancora ritrovare in un artista dei nostri giorni sempre più oscuramente commercializzati, cioè artificializzati e mentiti.
Con il che non si tratta affatto di qualche anacronistica laude del tempo andato, ma di una ritrovata constatazione di profonda e autentica sincerità e di sapiente e solida fedeltà di mestiere quale sicuro riconoscimento di valore d’arte. Basta osservare la sfida che queste sculture in ferro di Roberto Lanaro portano dentro, negli incontri, nelle forti scansioni elementari dei pesi e delle torsioni del metallo più schietto, contro ogni orpello di abbellimento e contro ogni trucco di camuffamento o di allettamento piacevolistico. I blocchi si abbracciano o si respingono in un dialogo vivo, deciso e senza infingimenti: parlano fra di loro, si attraggono o si respingono, a volte si isolano uno accanto all’altro, diventano “situazione”, ma sempre non d’altro discorrono se non del proprio gesto materiale, della propria nuda natura di ferro, del proprio emergere e piegarsi o drizzarsi sulla terra, felici della propria forma intatta e compiuta, ritrovata fuori dal caos dell’informe. Così si inganna chi, facendo scivolare lo sguardo superficialmente sulle forme, senza vera attenzione penetrativa dell’anima segreta dei materiali, vi cerca altro, magari anche un lavoro di fusione (di ben diversa e più semplicistica lavorazione) invece della diretta modellazione a colpi di maglio, oppure si illude di qualche trasposizione simbolica o di riferimenti metaforici.
La verità è che qui, in queste costruzioni variamente dialoganti, non c’è metafora: se metafora è trasposto, trasferimento di senso e di nome da un oggetto all’altro (reale o concettuale), allora qui è vano, per vizio  intellettualistico o culturalistico, parlare di metafora o di metafore. In queste sculture fortemente oggettuali non c’è nessun rimando ad altro. Dal loro corpo non emana altro che la propria natura e i princìpi delle proprie costituzioni, senza nessun traslato, nessuna trasposizione di significato o di immagine che, sostanzialmente, voglia alludere a qualcosa d’altro, fuori da se stesso. Qui il segno, pur riempiendosi di sentimenti e dialoghi umani, tendenzialmente, come in ogni vera arte, fa corpo con se stesso. Si risolve in scultura pura. Naturalmente questa pura essenza della scultura è un difficile e alto punto di arrivo di un lungo cammino. E Lanaro da tempo non è certo più un ricercatore ai suoi inizi e neppure quel che si dice una promessa.
È un artista nella sua piena maturità che opera nel completo possesso tecnico-formale dei suoi mezzi e del suo mondo.
Cresciuto in una famiglia di fabbri, nell’officina del padre si impadronì ben presto di tutti i segreti del mestiere; la padronanza dei vari strumenti e della loro orchestrazione nella costruzione di forme espressive, partì, com’era logico, da intuizioni di progressive abilità e perfezionamenti, fino al preziosismo, tipici del “ferro battuto”.
E diede luogo a forme stupefacenti di alto valore artigianale, culminanti, forse, in quel formidabile «Dragone» tutto a scaglie intessute e creste, lungo sei metri e del peso di sei quintali, del 1968. Un vero capolavoro di tecnica e di espressività del ferro battuto che, da allora, ergendosi in paurosa rivolta dal piazzale di un ristorante, non cessa dal far rallentare le macchine che passano dalle strade circonvicine, suscitando un misto di timore e di meraviglia. Ma il ferro battuto non è ancora la scultura: e la strada da percorrere è lunga. Per cui una profonda esigenza di purificazioni formali spingono in breve Lanaro a asciarsi alle spalle l’ormai conquistato e superato figurativismo ornamentalistico del ferro battuto. Altre vie bisogna battere per attingere la più autentica e profonda poesia del ferro liberato in pura scultura. Ed ecco la svolta di liberazione che prende inizio negli anni settanta. È allora che la curiosità dello scultore si appunta sull’opera della fiamma ossidrica e sulla sua perforante potenza di penetrare e di tagliare il ferro, fino a frugarne le intime viscere, operando di fenditure e di tagli slabbrati, quasi a spaccare il cuore della materia per scoprirne gli intimi segreti. Nascono così le “Fratture”: una serie di opere che riprovano questa ricerca avanzante, come si può vedere, ad esempio, nel «Disco» del 1974, percorso da acuti tagli orizzontali che ritmano l’aprirsi, abissale e formale insieme, della materia che dice se stessa. In questo stesso anno Lanaro comincia a frequentare i corsi estivi dell’Accademia d’arte di Salisburgo. Un’alta scuola di formazione artistica, dove la ricerca e la cultura offrono uno straordinario luogo, specie in quegli anni, di tutte le più avanzate stimolazioni di un ambiente vivacemente internazionale. Questa scuola, fondata da Kokoschka nel 1954 (nella quale sono passati alcuni fra i maggiori artisti italiani di quegli anni, tra questi Manzù), con i suoi corsi di scultura tenuti fra il ’74 e il ’77 dal magistero fertile e innovatore di Somaini (un grande maestro di costruttività spaziale), proprio in questi anni e sotto tale magistero ha segnato profondamente la formazione e l’uscita di Lanaro. Alle prove finali dei corsi ottenne il primo premio nel 1974 e nel 1976, a dimostrazione del profitto che dall’insegnamento aveva saputo trarre. Nascono allora opere sempre più compatte e potenti.
Dopo le «Fratture», l’esplorazione della vita interiore del ferro, ecco che si erigono nello spazio più ampio di terra e di cielo, in tutta la loro dinamica compattezza vivente, le”Torsioni ” poderose masse serrate, spesso  ravvicinate e fermate in un loro muto dialogare di corpi che s’inclinano, in gesti d’attrazione o di repulsione, girandosi e torcendosi come per rinchiudersi nel proprio silenzio o per aprirsi per dire un proprio segreto. E in verità altro non vogliono essere e dire se non la conquista di uno spazio originario.
La prima testimonianza dell’avvenuto passaggio verso le più recenti vigorose modulazioni spaziali si ha forse nell’opera “II nodo», un intreccio di sbarre in torsione del 1976. In seguito il piegarsi e il torcersi, tendenzialmente verticale ma a volte anche in lotta sul piano di base, si riprova in sempre più nuove costruzioni; dove la tecnica costruttiva e l’ideazione delle sempre più libere e aperte rearganizzazioni della direzioni e dei ritmi dello spazio, vivono nella più assoluta linearità e fedele nudità del ferro. La scansione modulativa di corpi allungati cilindrici associati a tagli di parallelepipedi, mantiene ben ferma la rigorosa sincerità del materiale autoespressivo e autogenerativo della forma, senza cedimenti narrativi esterni o debolezze ornamentali o estetizzanti.
Sono questi gli autentici valori che, a partire dalla lunga stele che a Spello si erge diritta contro il cielo per poi improvvisamente spezzarsi sull’alto, dove la piastra zigzaga e cambia direzione (“Situazione» 1976), animano le sculture degli anni Ottanta. Tra le quali è importante notare la potenza plastica dei due altorilievi che muovono e impreziosiscono le pareti della Banca Antoniana: la grande cuspide di freccia del 1985 per la sede di Thiene, e quella sintesi di forza ed eleganza, dove il gioco delle sovrapposizioni bimateriche insieme alla frattura diametrale e a sottili dissimmetrie creano, in questo «Disco» del 1986, un potente rilievo che dinamizza tutta la parete.
E più avanti ancora, nel 1988, un altro segno notevole dell’opera di Lanaro è dato ritrovare in Francia, a Naubeuge, dove, sulla piazza antistante all’Accademia, si può ancora oggi ammirare un monumento di estrema purezza lineare; una sola linea, si potrebbe dire, costituita da un lastrone metallico di forte spessore, che balza in alto quasi verticalmente per poi ricadere dall’alto come un gigantesco zampillo che onduleggia a mezza strada e s’allarga sulla base, ritorcendosi.
Si noti, infine, come sempre siano il lavoro stesso e la natura del materiale che determinano e governano la forma, la semplice severità delle forme.
Si tratta quasi sempre di operare curvature o piegature su barre che vanno dai tre agli otto centimetri di spessore e su lamiere da tre o cinque centimetri, modellandole al fuoco della forgia od anche a freddo, sotto pressa. Non possiamo qui tacere dello stupore che si prova, nel grande capannone dell’officina dove Lanaro lavora, quando ci si trova davanti alla gigantesca pressa, costruita pezzo a pezzo (anche derivati dai depositi dei materiali di recupero) dalle mani inventive dello stesso Lanaro per i fini e i tempi del proprio lavoro. Una poderosa macchina cubica che si erge per tre metri dal pavimento e sprigiona, nella maniera più controllata e con miracolosa dolcezza di moto, una spinta di trecento tonnellate, sotto la quale barre da dieci a quindici centimetri di spessore si piegano come burro sotto un controllo lento e millimetrico. Ma il tutto, dice Lanaro, in modo che il ferro non venga brutalmente aggredito, non soffra di cieca violenza, ma si muova e s’incurvi spontaneamente come sotto una carezza. È questo amore per la materia che genera lo scultore che pratica la poesia del ferro. Se una macchina è necessaria per prolungare e potenziare il braccio e il corpo che lavora alla scultura del ferro, questo non può e non deve essere una macchina tecnologica e industriale, ma a sua volta un corpo sensibile e vivente: tanto che Lanaro, costruitala comoiutamente, l’ha battezzata e affettuosamente la chiama col nome di un famoso gigante biblico: Golia.
Anche la macchina è nata come una scultura. Fa parte della storia di questo scultore che, nella propria opera mette in azione, nell’invenzione delle forme, ideali d’ingegneria e di architettura. Com’è giusto che sia in un completo ideale d’arte. Che implica pur sempre un atto d’amore. Per cui, questi poderosi blocchi delle costruzioni di Lanaro, se apparentemente sembrano nati da una rude forza primordiale, in realtà sono sopratutto figli di un Eros moderno, sapientemente dolce e raffinato, un mondo di creature sorte ed erette sulla terra per opera di un mirabile connubio primigenio fra gli dei della Forza e della Delicatezza mescolatisi in amore.
Una volta ancora (sembra di dover dire, fuori da ogni retorica intellettualistica e per un riconoscimento di viventi storie di potenze corporee) nell’Officina di Lanaro noi possiamo assistere alle antiche mitiche nozze di Venere e di Vulcano. E si deve, tutto ciò, al fatto riconoscibile che questo nostro scultore appartiene alla stirpe antica e gloriosa dei poeti-operai, del grande Chillida (per intenderci) celebrato dalla penna intinta di sensibilità e di filosofia di un Bachelard che insieme vi celebra la poesia del ferro. Per comprenderla, certo, va vissuta con la pienezza del corpo, poichè la superficialità volage e artificiosa del discorrere a parole l’uccide sul nascere. Allora si vedranno e gusteranno una ad una le morbide pieghe e le quiete torsioni, le ferite e le gioie, di queste opere che raggiungono la semplicità solenne e insondabile delle creature viventi nate dalle antiche nozze di fuoco del fabbro degli dei e dell’amore fecondatore. Ouelle pieghe della dura materia dominata, se bene osservate e vissute, possiedono la delicata  – grazia e la logica corporea delle carezze sui corpi amati. E tutto questo avviene parimenti sia nelle grandi sculture monumentali che nelle piccole, spesso modellini pensati per una successiva traduzione nelle opere di grande dimensione.
Come si vede in questo suo «Tempio della libertà»: un tempietto di tre elementi rispecchiantisi, tre corpi massicci in forma di parallelepipedo ritti agli angoli estremi di una base quadrata, ciascuno segnato a diversi livelli da una profonda piega che da un lato penetra vivamente e incurva per tutto il suo spessore la materia, fatta cedevole come una creta, non più di un unico . forte segno che muove l’aria e l’intorno spaziale di un insieme architettonico in cui i tre elementi verticali del tempietto senza tetto ritmano passaggio e porta-evocano l’anima, il ricordo, di antiche rovine di città omeriche per la loro stessa situazione strutturale. La sua riproduzione in un multiplo di fusione in bronzo lucidato a specchio, come ora viene data questa piccola scultura (alta 17 crn.), ne accentua il prezioso rimando della luce fra i tre corpi e nello stesso tempo li diafanizza e irrealizza sempre più facendone segni di antiche memorie. Nelle opere più recenti, infine, noi assistiamo alla vera tensione verso la potenza e il grande, che anima dal profondo tutta la scultura di Roberto Lanaro. Alle precedenti forme duali (cilindro e lama, parallelepipedo e barra tonda) che costituiscono le opere denominate «Dinamica» e «Confronto» – antagonismi di polarizzazioni duali o pluriduali, che nello spazio gettano il loro dialogo d’incontro o di scontro – vengono ora succedendo presenze più complesse e a più voci, quasi l’insorgere di una coralità dei gruppi e delle masse. Si può oggi vedere nell’officina già predisposta e costrutturata nei suoi elementi fondamentali, il dirompersi e il moltiplicarsi della precedente tensione duale in un moltiplicarsi di raggruppamenti pluriindividuali in un divincolarsi di gruppi e di folla in piazza. Il dialogo si è ormai dilatato nella pluridimensionalità tormentata e confusamente anonima della società contemporanea. In uno dei suoi appunti diaristici di personali notazioni, Lanaro, dopo aver parlato del “ferro rovente” che plasmato può diventare poesia come può diventare “mezzo di distruzione e di catastrofe”, scrive: “I fatti del Golfo mi portano a pensare, a cosa serve la scultura quando l’uomo pensa solo alle bombe”. A questi suoi e nostri momenti di scoramento per gli uomini impazziti che pensano solo alle bombe anzichè alla poesia del ferro, noi sappiamo che possiamo rispondere che è proprio in momenti di questo genere che tutta la sua opera di scultura ci dice che bisogna continuare e più ancora insistere a scolpire il ferro, per sottrarre questa antica materia di civiltà della prassi lavorativa umana alle ferocie distruttive che gli uomini portano dentro nel loro istinto di morte, per riscattarne e salvarne, con opere di mano e di pensiero, le sue più intime e più vere fibre non più portate verso l’uccisione dell’uomo, bensì verso la sua esaltazione in mondi di libertà e di poesia. Finchè sarà vero che l’arte vuole agire l’immortalità e che l’antico rito – un vero archetipo – del ferro nasce dal canto alterno del fuoco e dell’incudine e si celebra in presenza della fiamma che non muore.
Dino Formaggio

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ROBERTO LANARO

 piegando il ferro scandisce lo spazio

dì GIULIANO MENATO

Roberto Lanaro è uno straordinario scultore veneto che può vantare una storia artistica fatta di ricerche espressive e di esiti formali rilevantissimi.
Il ferro, la materia da lui prediletta perché come nessun’ altra egli ha lavorato con tanta assiduità e amore, fin da quando, ragazzo, aiutava il padre nella bottega-officina di famiglia, è plasmato non con lo spirito dell’artigiano – eppure artigiano Lanaro è per la sapiente e spontanea manualità con cui lo tratta – ma con la superiore vocazione dell’artista. Senza rinnegare le sue origini, alle quali egli deve la maestria con cui opera e realizza direttamente il suo prodotto, Lanaro si è preparato ad essere scultore attraverso una disciplina mentale, una lunga riflessione sulla forma e la sua storia, dall’antichità ai nostri giorni. Così le sue opere sono sì l’espressione di un vivace estro inventivo e di una non comune vitalità, ma a servizio di un’idea, di un progetto, quindi valorizzate dalla consapevolezza del fare che non affida nulla o quasi al caso. Ritengo che aspirazione di Lanaro, della cui attività si sono interessati alcuni tra i più illuminati critici italiani e stranieri – primo tra tutti il compianto Umbro Apollonio -, non sia di essere considerato un demiurgo eccezionale, alla stregua di Vulcano, il quale congedava dalla sua fucina mirabili imprese che colpivano, l’immaginazione dei suoi mitici o eroici committenti, bensì un a vveduto artefice del nostro tempo, che interviene per lasciare una testimonianza significativa del proprio ingegno in rapporto al vivere quotidiano e alle idealità – anche estetiche – dell’ uomo contemporaneo.
Nessuna volontà di stupire, quindi, per la spettacolarità dell’ azione artistica, per la preziosità del cesello; l’esigenza, invece, molto viva, di misurarsi con lo spazio circostante, fruibile in dimensione umana, in cui si svolge e si qualifica la nostra esperienza. Nessuna intenzione, poi, di gareggiare con la natura, di rappresentarla più vera del vero, di arricchirla di particolari inediti, escogitando strane combinazioni, ma il bisogno di semplificare la realtà riducendola alle sue forme elementari, di rifarsi agli archetipi, ai principi basilari su cui poggia un’azione fondamentalmente costruttiva.  Ecco allora la barra di ferro, elemento essenziale e “preesistente”, intorno al quale si sviluppa ogni intervento stimolato dalla fantasia, ma calcolato con precisa determinazione.
Le flessioni, le movenze, le aperture direzionali, intese sia come espansione, alla maniera del fiore che si apre dilatandosi sul suo stelo, sia come ripiegamento, ritorno, viluppo, non sono mai in funzione decorativa, hanno l’essenzialità del movimento che una forza primigenia imprime, sprigionano una tensione che appartiene àlla materia metallica, prima che al soggetto che la domina. Voglio dire che Lanaro non fa scultura per ricavare effetti suggestivi, raffinatezze particolari, cose, queste che appartengono ad un ordine di idee diverso da quello che lo induce ad impalcare nelle spazio atmosferico architetture che si confrontano con l’ambiente in studiate articolazioni. Resta per noi ancora valida lo sottile osservazione fatta tanti anni fa da Apollonio su Lanaro: “Egli non ha praticato le strade dell’ ‘informale’, ma ne ha appreso la lezione alla lontana, mentre si è piuttosto accostato direttamente alle ipotesi di quel costruttivismo particolare che potrebbe essere la ‘minimal’ americana, nel senso che la semplificazione ribatte dovunque e cancella ogni e qualsiasi ridondanza appena ne spunti la minima evenienza per un suo manifestarsi”. Di ascendenza inequivocabilmente astratta, le sculture di Lanaro sono altrettanto lontane nella loro dimensione lineare – libera, in ogni caso, da condizionamenti geometrici ‘, sia dal monumentalismo determinato dal consolidarsi di poderosi volumi, sia dal decorativismo di pur ardite tramature giocate su insistite alternanze
di pieni e vuoti. Nella purezza dell’ evoluzione spaziale esse non sono né oppresse dal peso, né avvilite da un drappeggio che ne snaturi l’anima architettonica. Nate per essere inserite in un ambiente, per trovare posto in uno spazio, insomma per dialogare con l’uomo che vive in comrnunitò: “non sono – come aveva ben visto il direttore dei mesi viennesi Hermann Fillitz – in collegamento con un fenomeno naturale, che pure in qualche modo riflettono, ma sono creazioni a sé stanti, vengono concretizzate attraverso le leggi dell’ordine, del movimento, della dinamica. Attraverso la popolarità delle direzioni del movimento e delle posizioni delle torsioni, si colgono rappresentazioni dello spazio, che vengono rese plasticamente”.
Non importa che da Fratture, Torsioni, Nodi le immagini siano divenute Dialoghi, Incontri, Abbracci o Piazze tte , come da ultimo è dato di vedere in qualche esemplare esposto in questa mostra. La rappresentazione, sia pure allusiva, di relazioni personali o di luoghi delle relazioni awiene in termini tanto semplificati da non autorizzare nessuno a spingersi oltre con interpretazioni smentite dalla stessa realtà dell’oggetto e dai principi che /o determinano. La scultura di Lanaro è stata e resta azione da collegare alle potenzialità espressive della materia – il ferro, per l’appunto -, non è rievocazione, sia pure in termini astratti, di particolari condizioni dell’ essere.  (Montecchio Maggiore – VI, 1994)

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LANARO ROBERTO – MOLVENA (VI) 26-09-1946 – D – GIOIELLI

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