TRADIZIONI DEI SETTE COMUNI
De Gamoàn bon Diben Komeün
di LUIGI FRIGO (Bettinado)
Edizione Tipografia Moderna, Asiago, 2006
PREFAZIONE DI LUIGI MENEGATTI
Don Olindo Pezzin con voce imperiosa intonava “A pestae, famae et bello…Libera, nos Domine”, rispondevano prontamente i chierichetti in coro, assieme a Tilio campanaro, che sul braccio reggeva il cesto per raccogliere le uova. “A fulgoris et tempestate… ” riprendeva il prete.
Il nostro parroco ci aveva assicurato che il Signore è onnipotente e che, per preservare la gente del paese dalle carestie, dalle malattie e dalla guerra, dovevamo pregarlo con insistenza. Girando per le contrade, per benedire i campi ed auspicare buoni raccolti, nei tre giorni delle rogazioni si toccava praticamente tutto il territorio comunale.
Mia madre Ester, donna di fede, forse ispirata dal Signore, ispezionava i nostri comodini ed i nostri nascondigli scovando le pistole e le armi che utilizzavamo nei pericolosi giochi di guerra. L’armamentario veniva poi preso in consegna da mio padre per rimanere sepolto per sempre in fondo al pozzo. Ester accoglieva con un sorriso e un caldo buongiorno i poveri di Lamòn che passavano di tanto in tanto per le case per la questua delle patate.Venivano anche invitati a sedersi a mangiare con la famiglia e spesso con i ragazzi del paese che trovavano insuperabile il minestrone preparato a casa mia. Alla sera, dopo che la mamma aveva fatto recitare il rosario davanti all’immagine della Madonna di Monte Berico con l’aggiunta delle preghiere per i morti, specie per lo zio Luigi caduto in guerra in Tunisia e per il giovane Livio morto di infarto, mio padre si metteva a raccontare storie affascinanti e piene di avventure. Tutti ascoltavano e non volava una mosca poi, giunta l’ora, con Ester che dormiva già sulla sedia, con i ferri da calza ancora in mano, i ragazzi tornavano alle loro case.
Nel 1949 ci fu la grandiosa processione della Madonna Pellegrina, a suggellare la fine della guerra.
Verso sera, partendo dal ponte sulla Valgadena, confine con il territorio di Enego, gli uomini presero in consegna sulle spalle la statua della Vergine e, a piedi, cantando e con le torce accese, si arrivò in paese, dopo qualche ora. Quel giorno ero accompagnato dal nonno Giorgio, classe 1878, e pensai che quelle torce servissero anche a farci coraggio e ad esorcizzare i pericoli nascosti nella tetra e misteriosa valle.
Il nonno però non cantava e le sue formule erano incomprensibili ancor più del latino, perché le recitava in cimbro.
In questo contesto, tra fede e superstizione, povertà e speranza, passò rapida la giovinezza di una generazione nata durante la guerra, con scorribande quotidiane sui monti attorno al paese, a cercare gnari (nidi), residuati bellici e a fare legna.
Il futuro per le famiglie si presentava quanto mai incerto. Lo intuii quando sentii mia madre alzare la voce e poi piangere, dopo aver strappato di mano a mio padre la richiesta di espatrio per l’Australia. Quando tornò dalla guerra in Africa, mio padre non fu riconosciuto dal suo primogenito e adesso c’erano sette figli. “Si parte tutti insieme”, disse Ester, “oppure rimaniamo qui”.
In paese arrivavano di tanto in tanto dei frati, di Don Bosco, dei Francescani, degli Scalabriniani, per fare proseliti. Mancando le scuole superiori, i ragazzi più promet¬tenti venivano inseriti nel seminario diocesano, dove però occorreva che le famiglie pagassero una retta. Dopo qualche mese quasi tutti ricomparivano a casa e si chiudeva la loro breve parentesi di avvio agli studi dopo le classi elementari.
Sussidio e disoccupazione erano i termini che riecheggiavano ovunque.
Visto con gli occhi dei ragazzi ciò voleva dire veder stazionare davanti al municipio gruppi di uomini, spesso vestiti con pantaloni o giacche militari e, per un paio di volte, volle dire assistere ai tumulti che aveva¬no richiesto l’intervento del battaglione “Celere” della polizia.
Tony e Carlo Munari dell’ufficio di collocamento parlavano con il Sindaco o con Giache, lo stradino comunale, per ottenere in favore degli operai disoccupati qualche giornata di lavoro a mettere ghiaia sulle strade, al fine di far conseguire loro almeno il diritto alla copertura della mutua per le spese mediche od ospedaliere. Ogni giorno davanti all’ufficio postale c’era l’attesa di una lettera di richiamo dall’estero o di un contratto di lavoro.
Negli anni ’50, la temeraria raccolta dei residuati bellici della prima guerra mondiale aveva rappresentato un piccolo aiuto, permettendo alle famiglie di tirare avanti, lasciando però una scia di morti e mutilati.
Poi fu un’interminabile, inarrestabile, dolorosa emorragia di forze vive: uomini, donne, famiglie intere che abbandonavano per sempre le loro contrade alla ricerca di un futuro per i propri figli.
Arrivai a Sidney nel 1979, durante il viaggio organizzato dai Comuni, dalle Parrocchie dell’Altopiano e dalla Comunità Montana, mandatovi dal presidente, prof. Sergio Donato, per riallacciare i legami con i nostri emigranti in Australia. Giunti all’aeroporto di Sidney, con un volo proveniente da Adelaide, consultammo l’elenco telefonico in attesa di recarci a Melbourne, dove vive la grande maggioranza dei nostri altopianesi.
Trovando il cognome Panozzo pensammo fosse dei nostri. “Hello”, rispose una ragazza dall’altra parte del filo. “Siamo dell’Altopiano”, dissi, “sono il Sindaco di Foza e con me e è il Sindaco di Enego. Ci possiamo incontrare?”.
Fu una festa memorabile. La casa dei Panozzo “Levi” ci accolse festosa, con una cena a base di pesce appena pescato nell’oceano. Sulla parete esterna dell’abitazione campeggiava la scritta “Asiago”.
Due o tre anni fa, quando, segnalatemi da Giancarlo Bortoli, incontrai a Vicenza il giovane Luigi Frigo che mi parlò del suo desiderio di raccogliere e pubblicare le tradizioni dei nostri paesi, pensai a quell’incontro nella baia di Sidney e a quell'”Asiago” stampato sulla casa.
Per i nostri emigranti sarà emozionante, ora che l’opera pregevole è terminata, tornare alle loro contrade, alla loro giovinezza, attraverso le pagine scritte da Luigi Frigo. E’ la raccolta di un patrimonio caro alla memoria ed al ricordo di tanti, frutto del corso lento dei secoli e delle usanze portate dal lungo viaggio percorso dai nostri avi, alla ricerca di una terra ospitale e salubre dove pascolare le greggi e le mucche, tagliare la legna, caccia¬re in libertà, crescere i propri figli. Uomini liberi e indipendenti, legati dal vincolo fraterno, frutto della difesa comune del territorio e del vivere insieme. L’Antica Patria delle donne e degli uomini dei “Sette Comuni, fratelli cari”.