MAROSTICA – LA CHIESA DI SAN ROCCO – PARTE SECONDA

CHIESA DI SAN ROCCO 

PARTE SECONDA 

NOTE BIOGRAFICHE

DEGLI ARTISTI E DEI SANTI CITATI 

BIANCHI ANTONIO DI GIORDANO

Nato a Pellio Inferiore (Frazione di Alta Valle Intelvi, CO) ) nel 1620 in una famiglia tradizionale di tagliapietra, qualificato “tavola pietre”, “spezzapreda”, “scultore”. Nel 1642 si trasferì a Vicenza dove fu attivo nella Fraglia vicentina dei muratori e lapicidi, qui qualificato come stuccatore altarista. Nel 1655 risulta Gastaldo della Fraglia. Eseguì diversi altare nella provincia di Vicenza, fra cui Noventa Vicentina nella chiesa Arcipretale. In San Rocco di Borgo Panica realizzò due altari commissionato dalla Confraternita dell’Angelo Custode: San Domenico, e l’Angelo Custode o la morte di San Giuseppe. Da alcune osservazioni scaturite dall’esame delle opere, l’esperienza determinante per il maestro fu probabilmente costituita dai contatti con l’officina degli Albanese, dove è probabile abbia lavorato all’indomani dell’arrivo dalla valle d’Intelvi, in qualità di garzone, ricavandone suggestioni destinate a soverchiare il bagaglio culturale portato dalla Lombardia. In seguito ebbe altre esperienze con i rapporti degli scultori vicentini giunti tra i Berici dalla sua stessa terra. Morì a Vicenza il 17 settembre 1678.

BIANCHINI NATALE

 “Questi fu quel famoso artefice, il quale fece molti parapetti d’altari, e tavolini, che sembrano di marmo, ne’ quali si veggono figure di santi, di uccelli, di fiori, e di altre cose espresse con colori così vivi, naturali, e belli, che muovono a meraviglia chi li mira. Se ne trovano in parecchi luoghi, ma specialmente a Marostica sua patria, come ho letto ne’ libri dei defunti di quella pieve, egli morì nell’anno 1729 ai 28 di maggio in età di anni 76 e fu sepolto nella chiesa di S. Rocco. Per altre notizie de medesimo potrebbesi vedere il nostro Abecedario pittorico Vicentino mss ove notai molte fatture da esso fatte tanto in Marostica , quanto altrove, tanto nelle chiese, che nelle case private. Nelle sue fatture una sol volta mi riuscì di vedere notato il suo nome in un tavolino rotondo in casa del M. R. signor D. Francesco Bonomo di Marostica. Ivi sta scritto: Nadal Bianchin fece. MDCC” (Da Maccà, storia del territorio vicentino. Tomo II, pp 47, 1812)

BIZZOTTO GIOVANNI LUIGI 

Nacque a Rossano Veneto (Vicenza) il 17 luglio 1903 da Gregorio e da Elisa Scapin e morì a Rossano Veneto l’11 novembre del 1969. Suo padre era un sarto, ma anche pittore autodidatta per diletto. Si accorse presto dell’inclinazione artistica del figlio e nonostante le difficoltà e i disagi del primo dopoguerra ne agevolò la frequenza all’Accademia delle Belle Arti di Venezia, dove G. Luigi trovò un maestro formidabile, Ettore Tito, del quale fu per lungo tempo allievo. Intesse inoltre rapporti di grande amicizia e stima con un altro artista rossanese Fratel Venzo. Dopo gli studi presso l’Accademia iniziò a lavorare come insegnante di disegno presso la Scuola Media di Bassano, ma dopo aver vinto un concorso per un’opera di carattere sacro, la Pala di Santa Brigida attualmente conservata nella chiesetta del cimitero di Roncegno (TN) , e per non prendere la tessera del partito fascista, lasciò il lavoro statale e da quel momento abbracciò esclusivamente all’arte pittorica, dedicandosi soprattutto a soggetti religiosi in un crescendo di lavoro sempre più intenso che lo porterà a lasciare il proprio segno in diverse chiese del bassanese e delle provincie di Padova e Treviso. Tuttavia non disdegnò ritratti o scene agresti dove esprime la sua vena intimistica e naturalistica. Nel 1932 sposò Lina Zamperla, la sua amata Odilla, da cui avrà cinque figli. G. Luigi Bizzotto, di carattere schivo e modesto, affrescò, dipinse, disegnò vetrate fino alla seconda metà degli anni sessanta, poi venne colpito da paresi e morì, come detto,  nel 1969.

Ricordiamo alcune delle sue opere religiose principali:

– a Bassano del Grappa nella chiesa di San Francesco si trova uno dei suoi capolavori: la Pala dipinta ad olio della Madonna, sita sopra il primo altare di sinistra; le famose vetrate del Tempio Ossario;  le vetrate della Chiesa di Santa Croce; gli affreschi della chiesa che si trova nel collegio degli Scalabrini; le vetrate della chiesa dell’Ospedale vecchio;  l’affresco della splendida Madonna del capitello, situato in Via Villaraspa; 

– a Cassola la pala d’altare dell’Annunciazione per la cappella della Scuola Materna “Gaetana Sterni”

– a Marostica gli affreschi della Chiesa di San Rocco: gli affreschi della Cappella del Beato Lorenzino nella chiesa di Santa Maria Assunta

– a Mussolente gli affreschi della cappella della Madonna nel Santuario della Madonna dell’Acqua

– a Galliera Veneta vetrate e affresco nella Chiesa Parrocchiale

– a Castelfranco Veneto vetrate nella Chiesa di Santa Maria della Pieve

( DA – Luigi Bizzotto 1903 – 1969, a cura di Giorgio Brunello, 2009  – Giovanni (Luigi) Bizzotto di Gastone Favero in Arte e devozione in Valsugana, 22 dicembre 2013 (l’autore adotta prima di Luigi il nome di Giovanni, in quanto Bizzotto si firmava come G. Bizzotto, G. interpretato come  G. (Gigi) di Luigi.  Ho chiesto al comune di Rossano Veneto copia atto di nascita, che giuntomi evidenzia come sia stato chiamato Giovanni Luigi. Pertanto quel G. Bizzotto significava Giovanni Bizzotto. 

DIAMANTINI GIUSEPPE

Nacque nel 1621 a Fossombrone (attualmente nella provincia di Pesaro-Urbino) primogenito di Vincenzo e di Vittoria Amici. Giunto in età di apprendere l’arte, fu inviato a Bologna dove sarebbe stato allievo di Giovanni Andrea Sirani. A Bologna ebbe modo di studiare i grandi maestri emiliani, rimanendo soprattutto colpito dall’arte incisoria di Simone Cantarini e dall’’arte pittorica di Ludovico Carracci. In una data non documentata, l’artista si spostò a Venezia, ove risiedette poi fino al 1698. Nella città lagunare lavorò come pittore e incisore, soprattutto per famiglie private, estendendo la sua attività anche in città limitrofe (sue opere sono documentate a Rovigo e Verona), mentre più limitata appare la sua produzione per edifici pubblici e chiese. Oltre all’attività pittorica e ad una sostenuta produzione incisoria, nel periodo veneziano il Diamantini si esercitò, specie nell’età più matura, anche nell’arte della poesia. Nel Veneto si trasferirono anche due fratelli dell’artista: il primo, Leonardo, fu uno stimato calligrafo, miniaturista e maestro di ballo, mentre l’altro fratello, Aldebrando Antonio, si stabilì a Padova, ove esercitò la professione di calligrafo ed insieme quella di maestro di scherma e danzatore. Nel 1698, ormai quasi cieco, il Diamantini fece ritorno a Fossombrone, ove morì l’11 novembre 1705.

MAGANZA ALESSANDRO

Nacque a Vicenza prima del 1556 dal poeta e pittore Giovanni Battista e, probabilmente, di Thia Dal Bianco. Il padre lo avviò alla pratica della pittura, quindi proseguì nella bottega di Giovanni Antonio Fasolo dove conobbe Giovan Battista Zelotti, esponente del manierismo veronesiano vicentino. Dal matrimonio (risulterebbe sposato nel 1572) nacquero cinque figli, Giovanni Battista iuniore, Marcantonio, Girolamo, Vincenzo e Dorotea Fiore. Nel 1572 morì Giovanni Antonio Fasolo e il Maganza si trasferì a Venezia, e vi restò fino al 1576. Qui raggiunse una solida pratica di mestiere, e intorno al 1576 il Maganza tornò a Vicenza, e qui le sue numerose opere e quelle della sua bottega (cioè dei suoi 4 figli) dominarono il campo per quasi mezzo secolo. Infatti le opere uscite da questa “azienda” famigliare si trovano disseminate nelle chiese vicentine e del territorio circostante con riscontri anche a Cremona, Bergamo, Brescia, Salò , Padova e Verona. Durante la pestilenza del 1630 il Maganza perse i figli Marcantonio, Girolamo e forse Vincenzo. Morì a Vicenza nel 1632.

SAN CAMILLO DE LELLIS

Nacque a Bucchianico, nei pressi di Chieti, il 25 maggio 1550, da un ufficiale di nobile famiglia al servizio dell’imperatore Carlo V, e da una madre già avanti nell’età (era sessantenne quando lo diede alla luce). Camillo fu un fanciullo vivace e irrequieto. Imparò a leggere e a scrivere, cosa non di poco conto all’epoca, ma quando, a tredici anni, gli morì la mamma, non disdegnò i tumulti di una vita vagabonda. Nel 1568 Camillo si arruolò, al seguito del papà, militare di carriera, nell’esercito della repubblica di Venezia in lotta contro i turchi, ma ben presto rimase orfano anche di padre. Frequentando i soldati, ne imparò linguaggio e passatempi, fra i quali il gioco delle carte e dei dadi. Privo di risorse, fu costretto, a causa di un’ulcera varicosa al piede, a cercare di farsi curare all’ospedale di San Giacomo degli Incurabili a Roma che dava cure gratuite. Dopo un mese, però, da quel posto fu allontanato a causa della sua passione per il gioco. Fisicamente Camillo era un gigante, alto quasi due metri. E chi lo conosceva lo descriveva di buon cuore. Parzialmente guarito, Camillo pensò che gli conveniva proprio fare il militare mercenario e con la seconda Lega fu mandato, al soldo della Spagna, prima in Dalmazia e poi a Tunisi. Fu congedato nel 1574 e perse ogni suo avere al gioco. Per vivere, dovette mendicare finché non trovò lavoro come manovale nella costruzione del convento dei Cappuccini di Manfredonia (Foggia). Il 2 febbraio 1575 Camillo decise di abbracciare la vita cappuccina. Lui, discendente da famiglia nobile, avrebbe praticato i più umili uffici della comunità. Ottenne di vestire l’abito, ma dopo qualche mese l’ulcera varicosa si riaprì. Dovette così ritornare a San Giacomo degli Incurabili dove maturò la sua vocazione. Rifiutato per lo stesso motivo, una seconda volta, dai Cappuccini, Camillo decise di consacrarsi come infermiere al servizio dei malati sotto la direziono di San. Filippo Neri (Firenze 21-07-1515 – Roma 26-05-1595), l’apostolo di Roma. Dal momento che il personale infermieristico era, in genere, reclutato tra gente rozza e incapace, fin dal 1582 egli pensò di riunire in un’associazione dei compagni che, come lui, si fossero dedicati completamente alla cura dei malati. Un primo tentativo fallì per l’incomprensione dei direttori dell’ospedale. Camillo si convinse allora che era necessaria una famiglia religiosa indipendente. Per raggiungere lo scopo era necessario che egli, a trentadue anni, si rimettesse sui banchi di scuola, frequentasse al Collegio Romano i corsi di San Roberto Bellarmino (Montepulciano 04-10-1542 – Roma 17-09-1621) e di Francesco Suarez, pur continuando a visitare e a curare i malati. Nel 1584 Camillo poté celebrare la sua prima Messa. Fondò l’Ordine dei chierici regolari ministri degli infermi, noti con un nome indissolubilmente legato al suo: Camilliani. Morì il 14 luglio 1614.

SAN DOMENICO DI GUZMAN

Nacque nel 1170 a Caleruega, in Castiglia, da Felice di Guzmán e di Giovanna d’AzA. Non ci sono certezza che discenda dalla nobile famiglia dei Guzmán. Dopo una prima educazione ricevuta da uno zio arciprete, sui 14 anni fu inviato a Palencia dove frequentò corsi regolari di arti liberali e di teologia, per un decennio. A contatto con le miserie causate dalle continue guerre e dalle carestie, dimostrò una grande carità verso i poveri, arrivando nel 1191 a vendere le proprie preziose pergamene per sfamarli. Terminati gli studi, a 24 anni entrò fra i canonici regolari della cattedrale di Osma e fu ordinato sacerdote. L’evento per lui decisivo si ebbe quando il vescovo Diego di Acebes, nel 1203, inviato in missione diplomatica in Danimarca dal re Alfonso VIII di Castiglia per scortare una principessa promessa sposa di un principe spagnolo, chiese a Domenico di accompagnarlo. Durante il viaggio, entrambi vennero a contatto con due grandi pericoli per la cristianità di allora: il movimento ereticale dei Càtari (Albigesi), diffusosi soprattutto nella Francia meridionale, e la forte pressione delle popolazioni pagane dell’Europa nordorientale, tra cui quella dei Cumani le cui scorrerie avevano terrorizzato la Germania settentrionale. Di ritorno da un secondo viaggio in Danimarca, Diego e Domenico scesero a Roma per chiedere a Innocenzo III di poter dedicarsi all’evangelizzazione dei pagani, ma il Pontefice li orientò verso la predicazione nel sud della Francia tra i Càtari. Così, nel 1206, si recarono come missionari in Linguadoca e lì Domenico continuò il suo apostolato anche dopo la morte improvvisa di Diego, avvenuta il 30 dicembre 1207. Gli eretici, predicando e dando l’esempio di una vita austera e povera, avevano buon gioco sul popolo a causa del lusso, dell’ignoranza e talvolta della vita dissoluta del clero, sostanzialmente contrario alla riforma voluta nel secolo XI da papa Gregorio VII. Per vincere, bisognava combattere i Càtari sul loro stesso terreno, associando alla predicazione povertà e austerità di vita; così avevano già cominciato a fare Diego e Domenico il quale poi imperniò il suo apostolato su dibattiti pubblici, colloqui personali, trattative, predicazione, opera di persuasione, preghiera e penitenza appoggiato dal vescovo di Tolosa, Folco di Marsiglia. Sempre in Linguadoca, a Prouille, egli aveva fondato un monastero in cui si accoglievano donne che avevano abbandonato il catarismo; intanto, attorno a lui si erano raccolti anche uomini che condividevano i suoi stessi ideali, e con essi egli maturò l’idea di dare alla predicazione del gruppo una forma stabile e organizzata. Durante la sua permanenza a Tolosa, come ci racconta il beato Alano della Ripe, Domenico ebbe una visione della Vergine Maria che gli additò il rosario come la preghiera più efficace per combattere le eresie senza violenza. Da allora, il rosario si diffuse fino a diventare una delle più tradizionali preghiere mariane. Insieme a Folco nell’ottobre 1215 Domenico prese parte a Roma al Concilio Lateranense IV e sottopose il suo progetto a Innocenzo III che lo approvò. L’anno successivo, il 22 dicembre, fu il successore, Onorio III, a dare l’approvazione ufficiale e definitiva a quello che fu chiamato “Ordine dei predicatori”. Il riconoscimento pontificio favorì una rapida crescita di vocazioni e già dal 1217 l’Ordine fu in grado di inviare frati in varie regioni d’Europa, soprattutto nella penisola iberica e nei principali centri universitari del tempo, a Parigi e a Bologna. Non mancarono opposizioni da parte dei vescovi locali, che però furono superate da una bolla papale datata 11 febbraio 1218, che ordinava a tutti i prelati di dare assistenza ai predicatori. Nel 1220 e nel 1221 Domenico presiedette a Bologna i primi due Capitoli Generali destinati a redigere quella che si può chiamare la Magna Charta dell’ordine, in cui ne vengono precisati gli elementi fondamentali, e cioè: predicazione, studio, povertà mendicante, vita comune, legislazione, distribuzione geografica e spedizioni missionarie. In particolare lo studio doveva esercitasi «di giorno e di notte». «in casa e in viaggio», come mezzo ascetico e in vista di una più efficace predicazione. Terminato il secondo Capitolo Generale, Domenico riprese la missione anticàtara soprattutto nel Veneto e nelle Marche con un gruppo di compagni messigli a disposizione dal Papa, e con l’aiuto del cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, fondò altri conventi a Brescia, Piacenza, Parma e Faenza. Ma la fatica e il caldo spezzarono la sua fibra già estenuata dalle continue penitenze (non mangiava carne e non beveva vino), costringendolo a tornare a Bologna dove morì il 6 agosto 1221, circondato dai suoi frati ai quali aveva rivolto l’esortazione «ad avere carità, a custodire l’umiltà e a possedere una volontaria povertà». Il papa Gregorio IX a Rieti lo canonizzò il 3 luglio 1234.

SAN GIACINTO ODROWACZ

Le notizie sulle sue origini sono interamente desunte da testi agiografici del XVI secolo e poco attendibili, redatti in occasione della sua canonizzazione del 1594. Giacinto sarebbe appartenuto alla nobile famiglia degli Odrowacz e sarebbe nato nel castello di Lanka, a Kamień, in Slesia nel 1185. Dopo aver studiato diritto canonico e teologia a Cracovia, Praga e Bologna, sarebbe stato ordinato sacerdote e sarebbe divenuto canonico della cattedrale di Cracovia; poi sarebbe giunto in Italia accompagnando suo zio Ivo, vescovo. Sicuramente fu a Bologna nel 1221ed ebbe modo di incontrare San Domenico di Guzman, , che nel maggio di quell’anno celebrava nella città emiliana il secondo capitolo generale del suo Ordine. San Domenico prese quattro domestici del vescovo Ivo, li vestì dell’abito religioso, li istruì e li mandò in patria, nel giro di soli sei mesi: tra questi vi era pure Giacinto. Aveva allora 35 anni. Partirono da Roma a piedi e senza alcuna provvista. Quando Giunsero a Cracovia, il popolo che li attendeva li salutò come ambasciatori di Dio. In breve tutta la diocesi fu cambiata: i vizi furono debellati e si incominciò a vivere una vita di fervore e di fede. Ma, essendo la Polonia un campo troppo ristretto per lo zelo di Giacinto, si recò a portare la buona parola in Livonia, Svezia, Danimarca, Norvegia, Scozia, si inoltrò nella Russia, fino al Mar Nero, e giunse anche alla Cina. Nelle sue peregrinazioni apostoliche Giacinto si fermò parecchio nella città di Kiovia attuale Kiev, allora capitale della Russia, ed ivi edificò un gran convento. Per l’invasione dei Tartari, il nostro Santo fu costretto a fuggire coi suoi compagni ed attraversata miracolosamente la Vistala sul suo mantello, giunse a Cracovia. Avendogli Iddio rivelato che era vicino il giorno della sua morte, ritornò nuovamente in patria, dove lo colse la febbre. Recatosi in chiesa, domandò e ricevette il Santo Viatico e l’Estrema Unzione, e nel giorno dell’Assunta, 15 agosto 1257, volò al cielo a ricevere il premio delle sue grandi fatiche apostoliche. La devozione popolare per san Giacinto iniziò subito dopo la sua morte: a seguito delle insistenti richieste del re di Polonia, Sigismondo III Vasa, papa Clemente VIII lo canonizzò il 17 aprile 1594. Il culto del nuovo santo, ebbe notevole e rapida diffusione tra il XVI e il XVII secolo; nel 1687 papa Innocenzo XI lo dichiarò patrono della Lituania.

SAN LUDOVICO BERTRAN

Nacque a Valenza, città della costa orientale spagnola, il 1 gennaio del 1526 da Giovanni Luigi, notaio, da Giovanna Angela Exarch sposata in seconde nozze. Il padre aveva una lontana parentela con San Vincenzo Ferrer, illustre predicatore domenicano suo concittadino, vissuto un secolo e mezzo prima. Nel periodo della sua fanciullezza e della prima adolescenza fu un periodo di crescita umana ma anche soprattutto religiosa con preghiera, penitenze e mortificazioni. Appena quattordicenne, col permesso dei genitori, passava spesso anche le notti ad assistere i malati che lo aspettavano come un vero angelo di conforto. Verso i sedici anni, sentendo un forte impulso ad intraprendere la vita del pellegrino, a somiglianza di San Rocco si allontanò, senza avvertire, dai genitori, i quali Si allontanò di mattino presto, nel cuore dell’inverno, senza avvertire i genitori, i quali poco dopo lo ritroveranno, ottenendo dal padre il permesso di andare pellegrino al santuario di San Giacomo di Compostela e quello di vestire la talare ecclesiastica in segno della sua determinazione a consacrarsi a Dio seguendo la vita e l’esempio dei frati dominicani. Questo avvenne più tardi, il 26 agosto 1544, quando vestì l’abito religioso. Vestì l’abito religioso a diciotto anni, il 26 agosto 1544 nonostante fosse stato evidente la sua fragile costituzione (era spesso ammalato). Emise la Professione solenne il 27 agosto 1545, anno in cui nella Chiesa aveva inizio il Concilio Tridentino, e continuò per due anni gli impegni di religioso studente, in preparazione al Sacerdozio. Celebrò la sua prima messa il 28 ottobre 1547, non ancora ventiduenne, nella chiesa del convento di Valenza. Nel 1548 il nostro Santo fu mandato nella cittadina di Lombay, dove era appena terminata la costruzione del «Convento della Santa Croce», dove rimase solo un anno perché a 23 anni fu eletto Maestro dei novizi. Nel 1556 poté assistere la mamma morente Nel 1557 si diffuse in Spagna la peste che subito colpì anche il convento domenicano di Valenza, per cui i frati furono distribuiti in varie parti: fra Ludovico fu mandato quale Vicario al convento di Albaida. Qui dimostrò le sue eccellenti qualità come responsabile della comunità e come apostolo della carità presso gli appestati e presso tutti i poveri che ricorrevano al convento. Si dedicò con zelo alla predicazione al popolo e al ministero sacerdotale con la confessione e la direzione delle anime, ottenendo con la sua preghiera interventi miracolosi, come quello in cui trasformò in crocifisso la canna di un fucile puntato su di lui per vendetta da un signorotto che si era sentito offeso dall’invito del predicatore a cambiare vita. Dopo tre anni, cessata la peste, tornò a Valenza e fu nuovamente incaricato di seguire i novizi, ma continuò anche la sua attività di predicatore. In questo periodo ebbe contatto epistolare con Santa Teresa d’Avila, la quale gli chiedeva se il suo disegno di riforma dell’Ordine carmelitano fosse nei disegni di Dio. La risposta fu di proseguire in questo disegno, a nome di Dio. In questo periodo cominciò a sentire una chiamata divina alla evangelizzazione del Nuovo Mondo, boicottata dallo sfruttamento dei colonizzatori e dalle credenze superstiziose degli indigeni. Questa chiamata venne quando giunsero a Valenza due missionari domenicani alla ricerca di nuovi religiosi per la missione evangelizzatrice. Nonostante la contrarietà di tanti, sicuro della benedizione di Dio, partì a piedi per Siviglia dove si sarebbe imbarcato con un confratello. Aveva trentasei anni quando sbarcò a Cartagena e prese dimora nel convento domenicano di San Giuseppe, da dove iniziò i suoi viaggi missionari nei villaggi vicini e poi in diversi paesi dell’attuale Colombia. Con la sua predicazione, accompagnata da segni prodigiosi, e con la sua continua penitenza(fame, sete, caldo, viaggi estenuanti in mezzo ai pericoli delle foreste) riuscì a portare al vero Dio tanti indigeni. Il nemico di ogni bene, però, suscitò contro di lui insinuazioni malevole, calunnie diffamanti e veri attentati alla sua vita: due volte gli fu dato a sua insaputa del veleno, che non ebbe effetti letali per intervento divino, ma che gli causò comunque forti dolori. Dopo sette anni di infaticabile lavoro missionario, fra Ludovico chiese al Maestro Generale di essere richiamato in patria perché la crudele tirannia dei governatori spagnoli sugli indios che tanto amava aveva turbato profondamente il suo animo; inoltre un’ispirazione soprannaturale gli aveva fatto capire che Dio lo voleva nuovamente in Europa ad infondere il suo zelo missionario in un numero maggiore di confratelli, che avrebbero continuato la sua opera nel tempo. Sbarcato a Siviglia il 18 ottobre 1569, fu accolto nel convento di Valenza, e restò libero da impegni per un anno. Nell’ottobre del 1570 fu eletto priore del convento di Sant’Onofrio, che si trovava in condizioni precarie sia materiali che spirituali. Al termine del suo triennio la situazione era completamente rovesciata. Tornato a Valenza, fu eletto nuovamente Maestro dei novizi, ma in tale ufficio durò poco più di un anno, perché il 15 maggio 1575 fu eletto priore del convento di Valenza, composto da una comunità di oltre cento frati. Al termine del suo mandato, il 15 maggio 1578, P. Bertràn iniziò una vita di nascondimento e di preghiera, con penitenze sempre rigorose per conformarsi meglio al Dio Crocifisso ed espiare le proprie colpe. Prodigi, profezie e visioni celesti accompagnarono anche l’ultimo periodo della sua vita, compreso il vaticinio della propria morte fatto nell’ottobre del 1580 al P. Pietro da Salamanca, mentre con lui andava a visitare un condannato a morte: «Padre, ricordate questo giorno, poiché tra un anno preciso io morirò!».. Morì, come aveva predetto, nella festa di San Dionigi, il 9 ottobre del 1581.. Fu beatificato da Papa Paolo V nel 1608 e canonizzato da Papa Clemente X il 12 aprile 1671.

SAN PIETRO DA VERONA MARTIRE

Non si conosce l’anno della sua nascita, anche se è verosimile che sia avvenuta nell’ultimo decennio del XII secolo. Verso il 1220, dopo aver frequentato l’Università di Bologna, entrò nell’Ordine domenicano. E’ probabile che fra le sue prime attività siano state la fondazione e l’organizzazione di alcune confraternite, le quali indubbiamente offrivano buoni strumenti sia per la realizzazione di opere caritative che per la salvaguardia della fede, a quei tempi accerchiata da correnti ereticali. Si sa che nel 1236 si trovava a Como, poi nel 1238 predicava a Vercelli, nel 1244 a Roma e nel 1245 a Firenze. In quest’ultima città rimase per lungo tempo il ricordo della sua eloquenza e della sua capacità di indurre l’eliminazione dell’eresia. Lasciata Firenze, fra Pietro da Verona tornò verso l’Italia settentrionale, continuò la sua predicazione fra Mantova, Pavia, Bergamo e Cesena. Mentre era priore ad Asti (1248-1249) fu chiamato ad un’opera pacificatrice fra le città della Romagna e della Marca Anconitana. Fu priore anche a Piacenza (1249-1250), quindi si trasferì a Milano, ove concentrò la sua attività apostolica nella lotta all’eresia. Il suo impegno in questo campo coincideva col programma papa di Innocenzo IV, deciso a mettere gli eretici alle corde. Infatti l’’8 giugno del 1251 nominò fra Pietro inquisitore della città di Cremona, allargando tale incarico, nel mese di settembre, alle città di Milano e Como. Quasi contemporaneamente il capitolo provinciale lombardo lo nominava priore in quest’ultima città. Il 24 marzo 1252, che era la domenica delle Palme, emanò un decreto col quale prorogava i termini previsti per gli eretici per sottomettersi alla Chiesa, ma specificava anche che i reticenti avrebbero subito un processo canonico. Gli eretici, individuando in lui il loro maggior pericolo, si organizzarono e progettarono di ucciderlo. I due sicari, Pietro da Balsamo (detto Carino) e Albertino Porro, attesero fra Pietro che con alcuni confratelli stava facendo la strada fra Como a Milano. Se Albertino fuggì per non commettere l’omicidio, non così Carino, che sorprese i due frati nel bosco di Barlassina, uccidendo fra Pietro con un colpo di “falcastro”, mentre fra Domenico moriva sei giorni dopo per le ferite riportate. Il 24 marzo 1253 il papa Innocenzo IV iscriveva Pietro nel catalogo dei Santi.

SAN RAIMONDO DI PENAFORT

Figlio di signori catalani, nacque a Penhafort nel 1175. Cominciò gli studi a Barcellona e li terminò a Bologna, dove diventerà anche insegnante. Qui conobbe il patrizio genovese Sinibaldo Fieschi, poi papa Innocenzo IV e aspro nemico dell’imperatore Federico II; e il capuano Pier delle Vigne, che di Federico sarà l’uomo di fiducia e poi la vittima (innocente, secondo Dante). Tornato a Barcellona, venne nominato canonico della cattedrale. Ma nel 1222 venne aperto in città un convento dell’Ordine dei Predicatori, fondato pochi anni prima da san Domenico. E lui lasciò il canonicato per farsi domenicano. Nel 1223 aiutà il futuro santo Pietro Nolasco, originario della Linguadoca in Francia, a fondare l’Ordine dei Mercedari per il riscatto degli schiavi, e qualche anno dopo accompagnò il cardinale Giovanni d’Abbeville a Roma. Qui Gregorio IX notò la profondità della sua dottrina giuridica e gli affidò un gravoso compito: raccogliere e ordinare tutte le decretali, ossia gli atti emanati via via dai pontefici in materia dogmatica e disciplinare, rispondendo a quesiti o intervenendo su situazioni specifiche: una massa enorme di testi più e meno importanti, un coacervo plurisecolare di decisioni, da perderci la testa. Raimondo riuscì a dare un ordine e una completezza mai raggiunti prima, e quindi una pronta utilità. A lavoro finito, nel 1234, il Papa gli offrì come ricompensa l’arcivescovado di Tarragona. Ma lui non accettò: è frate domenicano e frate vuole rimanere. Nel 1238, però, saranno proprio i suoi confratelli a volerlo generale dell’Ordine, e dovrà dire di sì. E sarà un periodo faticosissimo di viaggi, sempre a piedi, attraverso l’Europa, da un convento all’altro, da un problema all’altro. Un’attività così sfiancante che lo costrinse a lasciare l’incarico. Tornò, ormai settantenne, alla sua vera vita: preghiera, studio, formazione dei nuovi predicatori nell’Ordine, che andava espandendosi in Europa. Un Ordine per sua natura missionario e che perciò, pensava Raimondo, si doveva dotare di tutti gli strumenti culturali indispensabili per avvicinare, interessare, convincere. Occorrevano per questo testi idonei alla discussione con persone colte di altre fedi; e lui lavorò per parte sua a prepararli, spingendo inoltre il confratello Tommaso d’Aquino a scrivere per questo scopo la famosa Summa contra Gentiles. Inoltre, bisognava conoscere da vicino la cultura di coloro ai quali si voleva annunciare Cristo e Raimondo istituì una scuola di ebraico a Murcia, in Spagna, e una di arabo a Tunisi. Frate Raimondo morì a Barcellona ormai centenario, nel 1275. Sarà canonizzato nel 1601 da Clemente VIII.

SAN ROCCO

Nacque a Montpellier fra il 1345 e il 1350 ed morì a Voghera fra il 1376 ed il 1379 molto giovane a non più di trentadue anni di età. Secondo tutte le biografie i genitori Jean e Libère De La Croix erano una coppia di esemplari virtù cristiane, ricchi e benestanti ma dediti ad opere di carità. Rattristati dalla mancanza di un figlio rivolsero continue preghiere alla Vergine Maria dell’antica Chiesa di Notre-Dame des Tables fino ad ottenere la grazia richiesta. Secondo la pia devozione il neonato, a cui fu dato il nome di Rocco (da Rog o Rotch), nacque con una croce vermiglia impressa sul petto. Intorno ai vent’anni di età perse entrambi i genitori e decise di seguire Cristo fino in fondo: vendette tutti i suoi beni, si affiliò al Terz’ordine francescano e, indossato l’abito del pellegrino, fece voto di recarsi a Roma a pregare sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo. Non si sa il percorso prescelto per arrivare dalla Francia in Italia. E’ certo che nel luglio 1367 si trovava ad Acquapendente, una cittadina in provincia di Viterbo, dove ignorando i consigli della gente in fuga per la peste, il nostro Santo chiese di prestare servizio nel locale ospedale mettendosi al servizio di tutti. Tracciando il segno di croce sui malati, invocando la Trinità di Dio per la guarigione degli appestati, San Rocco diventò lo strumento di Dio per operare miracolose guarigioni. Ad Acquapendente San Rocco si fermò per circa tre mesi fino al diradarsi dell’epidemia, per poi dirigersi verso l’Emilia Romagna dove il morbo infuriava con maggiore violenza, al fine di poter prestare il proprio soccorso alle sventurate vittime della peste. Arrivò a Roma fra il 1367 e l’inizio del 1368, quando Papa Urbano V era da poco ritornato da Avignone. È del tutto probabile che il nostro Santo si sia recato all’ospedale del Santo Spirito, ed è qui che sarebbe avvenuto il più famoso miracolo di San Rocco: la guarigione di un cardinale, liberato dalla peste dopo aver tracciato sulla sua fronte il segno di Croce. Fu proprio questo cardinale a presentare San Rocco al pontefice: l’incontro con il Papa fu il momento culminante del soggiorno romano di San Rocco. Lasciò Roma tra il 1370 ed il 1371. Varie tradizioni segnalano la presenza del Santo a Rimini, Forlì, Cesena, Parma, Bologna. Certo è che nel luglio 1371 era a Piacenza presso l’ospedale di Nostra Signora di Betlemme. Qui proseguì la sua opera di conforto e di assistenza ai malati, finché scoprì di essere stato colpito dalla peste. Di sua iniziativa o forse scacciato dalla gente si allontanò dalla città e si rifugiò in un bosco vicino Sarmato, in una capanna vicino al fiume Trebbia. Qui un cane lo trovò e lo salvò dalla morte per fame portandogli ogni giorno un tozzo di pane, finché il suo ricco padrone seguendolo scoprì il rifugio del Santo. Dopo la guarigione San Rocco riprese il viaggio per tornare in patria. Le antiche ipotesi che riguardano gli ultimi anni della vita del Santo non sono verificabili. È invece certo che si sia trovato, sulla via del ritorno a casa, implicato nelle complicate vicende politiche del tempo: San Rocco fu arrestato come persona sospetta e condotto a Voghera davanti al governatore. Interrogato, per adempiere il voto non volle rivelare il suo nome dicendo solo di essere “un umile servitore di Gesù Cristo”. Gettato in prigione, vi trascorse cinque anni, vivendo questa nuova dura prova come un “purgatorio” per l’espiazione dei peccati. Quando la morte era ormai vicina, chiese al carceriere di condurgli un sacerdote; si verificarono allora alcuni eventi prodigiosi, che indussero i presenti ad avvisare il Governatore. Le voci si sparsero in fretta, ma quando la porta della cella venne riaperta, San Rocco era già morto: era il 16 agosto di un anno compreso tra il 1376 ed il 1379. Prima di spirare, il Santo aveva ottenuto da Dio il dono di diventare l’intercessore di tutti i malati di peste che avessero invocato il suo nome, nome che venne scoperto dall’anziana madre del Governatore o dalla sua nutrice, che dal particolare della croce vermiglia sul petto, riconobbe in lui il Rocco di Montpellier. San Rocco fu sepolto con tutti gli onori. Sulla sua tomba a Voghera cominciò subito a fiorire il culto al giovane Rocco, pellegrino di Montpellier, amico degli ultimi, degli appestati e dei poveri. Il Concilio di Costanza nel 1414 lo invocò santo per la liberazione dall’epidemia di peste ivi propagatasi durante i lavori conciliari.

San Rocco nella iconografia generale viene accompagnato da vari soggetti/oggetti Il cane simbolo della sua fedeltà alla chiamata divina La conchiglia ricorda il pellegrinaggio a Santiago. Ogni pellegrino che si recava in Galizia prelevava una la conchiglia dalle spiagge come segno dell’avvenuto pellegrinaggio. Simboleggia il cammino di fede che ogni discepolo di Cristo rinnova nel suo percorso di vita – La piaga ricorda il morbo della peste che il Santo contrasse nei pressi di Piacenza. E’ il simbolo della carità cristiana, il donarsi di se stesso totalmente – L’angelo celeste è l’anello che congiunge l’esperienza terrena del Santo alla presenza Divina che infonde coraggio, specie nei momenti di sofferenza, di incomprensioni, di ingratitudini Il bastone richiama le marce lunghissime che ogni pellegrino compie per raggiungere la meta. E’ simbolo del pellegrinaggio della vita, del cammino verso l’eterno – La croce rossa, presente solo in alcune immagini del pellegrino francese, ricorda la voglia a forma di croce che aveva nel petto fin dalla nascita – Il pane fu il sostegno del periodo della malattia del Santo. E’ il simbolo dell’eucarestia, sostegno nel cammino della vita – La zucca/borraccia si collega ancora al pellegrinaggio. Serviva a tenere l’acqua per lenire l’arsura del cammino. E’ simbolo della sete del divino che c’è in ogni uomo – Il sanrocchino è il mantello corto di tela, che serviva a proteggere il pellegrino dalle intemperie. E’ simbolo della protezione divina e del senso del pellegrinaggio verso l’eterno Altri simboli iconografici (libro, malati, borsa da viaggio, cappello parasole ) hanno una relativa rilevanza.

SAN TOMMASO D’AQUINO

San Tommaso nacque nel 1224-25 – o forse nel 1226-27 – nel castello di famiglia, a Roccasecca, contea di Aquino, ai confini tra il Lazio e la Campania, tra gli stati del papa e quelli dell’imperatore, per il quale la famiglia d’Aquino, d’origine longobarda, parteggiava. All’età di 5 anni, essendo figlio minore ed essendo la sua destinazione la vita ecclesiastica, venne offerto dal padre come oblato al vicino e celebre monastero di Montecassino. In questo monastero vi restò fino al 1239 circa, per circa dieci anni, che furono fondamentali per la sua formazione religiosa e letteraria sotto il monaco papa Gregorio Magno, maestro per eccellenza della contemplazione e dello studio teologico, che lo porterà alla ricerca continua di Dio. Nel 1239 fu inviato a Napoli a frequentare gli studi delle arti e della filosofia presso lo studium generale, che Federico II vi aveva fondato nel 1224. Qui Tommaso conobbe i frati Predicatori del convento che il successore di san Domenico, Giordano di Sassonia, vi aveva fondato nel 1231, e nell’aprile del 1244 ricevette l’abito domenicano. La sua scelta, rispetto alla vita monastica benedettina, fu quella di un ordine mendicante, votato alla povertà, indirizzato alla predicazione e all’insegnamento. Nel 1252 Tommaso venne inviato a Parigi, e nel 1256 ricevette il titolo di maestro in teologia. Suo grande impegno sarà quello di commentare la Sacra Scrittura, e lascerà commentari sui libri dell’Antico e Nuovo Testamento, oltre a Letture sulle Epistole di Paolo, sul Vangelo di Matteo e di Giovanni e altri ancora. Tuttavia, secondo Tommaso, il compito del teologo non è però solo quello di “leggere” (o insegnare e commentare) i testi sacri, ma anche quello di “disputare”, e Tommaso lo farà con acutezza, e nasceranno le ampie e dense “Questioni disputate”, che susciteranno ammirazione per il rigore, l’acume e la serena pacatezza. Ma anche un terzo impegno sarà svolto dal maestro di teologia, quello della predicazione, e molti saranno i frutti di fra Tommaso predicatore nei suoi sermoni a livello universitario e a livello anche popolare adattando il discorso alla semplicità e alla chiarezza. Lungo il viaggio verso Lione per il concilio ecumenico a cui era stato invitato, sentendo prossima la fine si fece trasportare presso i cistercensi di Fossanova. Vi rimase circa un mese, e, in un certo modo, tornava al monastero della sua giovinezza e qui spirò il 7 marzo 1274. Sarà canonizzato ad Avignone il 18 luglio 1323 e proclamato dottore della Chiesa il 15 aprile 1567.

SAN VALENTINO

Su San Valentino ci sono varie datazioni sulla sua vita e sulla sua morte. Quanto scritto di seguito, è quello più documentale e quindi più autentico. La Passione del santo di Terni ci parla di tre nobili ateniesi, Proculo, Efebo e Apollonio giunti a Roma per studiare presso il retore Cratone, maestro di lingua greca e latina. Questi aveva un figlio, di nome Cheremone, affetto da una deformità fisica che lo costringeva a stare rannicchiato su se stesso, e nessun medico era riuscito a guarirlo. Un tale Fonteio, inserito qui nel racconto, dichiara a Cratone che anche un suo fratello era stato a lungo affetto dalla medesima patologia ed era stato guarito da Valentino, vescovo di Terni. Cratone, manda allora a chiamare il vescovo, gli promette addirittura la metà di tutti i suoi beni se gli avesse guarito il figlio, ma Valentino, in un lunghissimo colloquio notturno, gli spiega che non saranno certo le sue ricchezze a guarire il ragazzo, quanto piuttosto la fede nell’unico Dio che appunto lo stesso vescovo adora. Cratone, ormai convinto, promette che si farà battezzare non appena suo figlio avrà riacquistato la salute. Valentino allora si ritira in una stanza dove fa distendere il ragazzo sul proprio cilicio; si immerge poi nella preghiera per tutta la notte finché una luce abbagliante avvolge il luogo e Cheremone balza in piedi completamente risanato. Di fronte al miracolo, Cratone e tutta la famiglia si fanno battezzare dal vescovo, così pure fanno i tre studenti greci, Proculo, Efebo e Apollonio, ma abbraccia il cristianesimo anche Abbondio altro studente e figlio del Praefetto di Roma, Furioso Placido, documentato in questa carica negli anni 346-347: è questa la data storica da attribuire al martirio di Valentino e non quelle che finora avevano parlato del II secolo, e quelle di S. Feliciano di Foligno. Quanto poi a Furioso Placido, egli era uno dei rappresentanti di quella classe senatoria che, almeno nella sua maggioranza, pur dopo l’Editto costantiniano del 313, continuava a seguire gli antichi culti della città. Proprio su mandato del Senato, Furioso, un nome che finora era stato tradotto con «adirato», un attributo riferito a Placido, arresta Valentino e lo fa decapitare al secondo miglio della via Flaminia, ma lo fa quasi di nascosto, durante la notte, per evitare la reazione della ormai numerosa componente cristiana della città. Dopo una prima sommaria sepoltura sul luogo del martirio, Proculo, Efebo ed Apollonio portano il corpo del martire a Terni e qui lo seppelliscono poco fuori della città. Ma a Terni il consolare Lucenzio (altrove chiamato Leonzio), informato del fatto, fa catturare i tre e, ancora durante la notte, per paura che la popolazione li liberasse, li fa decapitare e si sottrae all’eventuale rabbia popolare fuggendo dalla città insieme ai funzionari del suo ufficio. La popolazione intanto, sollecitata proprio da Abbondio, seppellisce anche i nuovi martiri presso la tomba di Valentino. Perché il vescovo e martire Valentino è il Santo degli innamorati? La leggenda vuole che la sua festa, a metà febbraio, si riallacciasse agli antichi festeggiamenti di Greci, Italici e Romani che si tenevano il 15 febbraio in onore del dio Pane, Fauno e Luperco. Questi festeggiamenti erano legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità. Divenuti troppo orridi e licenziosi, furono proibiti da Augusto e poi soppressi da Gelasio nel 494. La Chiesa cristianizzò quel rito pagano della fecondità anticipandolo al giorno 14 di febbraio attribuendo al martire di Terni la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati indirizzati al matrimonio e ad un’unione allietata dai figli. Da questa vicenda sorsero alcune leggende. Le più interessanti sono quelle che dicono il santo martire amante delle rose, fiori profumati che regalava alle coppie di fidanzati per augurare loro un’unione felice.

SAN VINCENZO FERRER

Vincenzo Ferrer nacque nel 1350 a Valenza, in Spagna, figlio di un notaio, e nel 1367 entrò nel convento domenicano della sua città. Quando Vincenzo era ancora un giovane teologo domenicano, la cristianità europea attraversava il cosiddetto “Grande scisma d’Occidente” Nel 1378 era morto papa Gregorio XI, il pontefice che aveva riportato la sede papale a Roma dopo circa settanta anni di permanenza ad Avignone. Il conclave riunito per nominare il suo successore, forse influenzato da tumulti popolari che chiedevano a gran voce un papa italiano, elesse l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Frignano, con il nome di Urbano VI. Ma quasi subito il nuovo papa manifestò atteggiamenti autoritari e ostili nei confronti di molti cardinali. Tredici di loro, in maggioranza francesi, si rifugiarono a Fondi e, con la motivazione che l’elezione di Urbano non era stata libera, scelsero un nuovo pontefice, Clemente VII, il quale poco dopo fece ritorno ad Avignone, dove stabilì la sua curia. I due papi iniziarono a cercare riconoscimenti e aiuti presso gli stati europei, ciascuno nominando nuovi cardinali e scomunicando gli avversari. Attorno ad essi si crearono due “obbedienze”, cioè due schieramenti politici, poiché alcune nazioni aderirono a Urbano VI, altre a Clemente VII. Ogni tentativo messo in atto per risolvere tale contesa fallì. Questa drammatica situazione durò per circa quarant’anni, perché dopo la scomparsa di Urbano VI a Roma, furono eletti Bonifacio IX e poi Innocenzo VII, mentre a Avignone a Clemente VII successe Benedetto XIII. Davanti all’impossibilità di convincere i due contendenti a dimettersi, nel 1409 fu convocato a Pisa un concilio che dichiarò deposti i due papi ed elesse Alessandro V, il quale però divenne solo il terzo papa di una Chiesa sempre più lacerata. Nel disorientamento prodotto dallo scisma del 1378 Vincenzo aderì al papa di Avignone Clemente VII, ed entrò in rapporti di amicizia con Pietro de Luna, anch’egli di Valenza, che era il legato papale di Clemente VII. Quando il de Luna nel 1394 divenne papa col nome di Benedetto XIII, Vincenzo ricoprì alla corte pontificia di Avignone l’incarico di confessore papale e penitenziere apostolico. Nel 1398 fu colpito da una grave malattia, la cui guarigione egli attribuì a un intervento soprannaturale: gli sarebbe apparso Cristo assieme a san Domenico e a san Francesco per guarirlo e affidargli la missione di predicare. L’anno successivo, lasciata la corte papale di Avignone, anche a motivo dei primi disaccordi con Benedetto XIII, Vincenzo iniziò un’intensa attività di predicazione itinerante, che nel giro di un ventennio lo porterà in Provenza, Piemonte, Lombardia e poi nuovamente in Spagna e in Francia. Tra il 1399 e il 1412 fu ad Arles, Marsiglia, Genova, Savona, in Savoia, nel Monferrato e infine a Piacenza e a Milano. Divenne confessore di Margherita di Savoia (beatificata nel 1676) e ad Alessandria conobbe il giovane Bernardino da Siena. In Provenza e nelle valli delle Alpi piemontesi predicò a lungo contro gli errori dei catari e dei valdesi, compiendo una fruttuosa opera di evangelizzazione. Lo seguiva una folla di discepoli, ai quali impose regole di vita e un abito bianco e nero. Soprattutto a partire dal 1409, l’anno del concilio di Pisa e dell’elezione di un terzo papa, la sua predicazione assunse un carattere decisamente apocalittico, tanto da venir chiamato l’“angelo dell’Apocalisse” profetizzato da san Giovanni. Alla crisi della società e all’angoscia dell’attesa della fine si accompagnò una forte ripresa dei movimenti penitenziali. Si assistette allo spettacolo di processioni con centinaia di persone che si flagellavano a scopo penitenziale, una pratica iniziata nell’Italia centrale alla metà del XIII secolo e poi diffusasi in molte parti d’Europa. La consapevolezza del dramma vissuto dalla cristianità e delle sue negative ricadute sul tessuto ecclesiale spinse Vincenzo ad adoperarsi per il ritorno della Chiesa all’unità. Dopo aver lasciato Avignone, iniziò a condurre una segreta attività diplomatica per contribuire a por fine allo scisma. Nel novembre 1408 partecipò al concilio di Perpignano, indetto da Benedetto XIII dopo l’annuncio della convocazione da parte di molti cardinali di un concilio a Pisa. Vincenzo rivolse allora a Benedetto un forte appello perché rinunciasse al papato, appello che ripeté, con più vigore, nel 1414 assieme al re Ferdinando d’Aragona. L’anno dopo, ancora a Perpignano, predicò alla presenza di Benedetto XIII e dei suoi cardinali, sottolineando con forza la necessità dell’unità nella Chiesa, condannando le resistenze inutili e orgogliose ed evocando con chiare allusioni il giudizio di Dio. Nel 1416 diede pubblicamente lettura dell’atto con il quale il re d’Aragona, da lui convinto, si sottraeva all’“obbedienza” del papa di Avignone. Nel 1417 mentre a Costanza si riuniva il concilio, che con l’elezione di Martino V, avrebbe posto fine allo scisma, Vincenzo riprese la sua missione di predicatore itinerante, percorrendo la Borgogna, dove conobbe Colette Boylet, l’iniziatrice del ramo delle clarisse colettine, e spingendosi da ultimo in Bretagna, dove continuò a predicare e a guidare processioni di penitenti fino alla morte, avvenuta a Vannes il 5 aprile 1419.

SANTA APOLLONIA DI ALESSANDRIA

I particolari della vita di questa santa d’Egitto ci sono sconosciuti, ma Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica riporta un brano della lettera del vescovo san Dionigi di Alessandria, indirizzata a Fabio di Antiochia, in cui narra alcuni episodi di cui era stato testimone durante la persecuzione scoppiata negli ultimi anni dell’impero di Filippo (244-249): una sommossa popolare, aizzata da un malvagio indovino, produsse il massacro di moltissimi cristiani, le cui case furono devastate e saccheggiate. I pagani presero Apollonia, una donna non sposata, già avanzata in età, alla quale colpirono le mascelle facendone uscire i denti, e minacciarono di gettarla in un rogo da loro acceso se non avesse pronunciato assieme a loro parole empie. «Ella», così nella lettera di Dionigi, «chiese che la lasciassero libera un istante: ottenuto ciò saltò rapidamente nel fuoco e ne fu consumata». Il fatto sarebbe avvenuto nel 249. La vita di Apollonia era stata irreprensibile e degna di ogni ammirazione, e forse questa sua condotta esemplare e l’apostolato che svolgeva suscitò l’ira dei pagani, che infierirono sul suo corpo in maniera crudele e volgare. Il racconto di Dionigi, così come lo possediamo, non contiene il minimo rimprovero per questa fine volontaria di Apollonia, che può sembrare suicidio. L’episodio dovette suscitare ammirazione non solo tra i carnefici e i pagani, ma fra gli stessi cristiani. Di questo si trova un’eco in Sant’Agostino il quale però non prende posizione sul problema se sia lecito darsi volontariamente la morte per evitare di cadere in peccato. Il culto di Apollonia si diffuse comunque presto in Oriente, e più tardi anche in Occidente: a Roma una chiesa, che oggi non esiste più, con un cimitero attiguo fu dedicata a lei presso la basilica di S. Maria in Trastevere. Molte sono pure le località d’Europa in cui furono costruite chiese e cappelle in onore della martire alessandrina, e particolarmente ricca è l’iconografia che la riguarda.

SANTA MARIA BERTILLA BOSCARDIN

Anna Francesca Boscardin, nasce a Brendola (VI) – paese dei Colli Berici – il 6 ottobre 1888, da Angelo e da Maria Teresa Benetti, primogenita di una famiglia contadina. Il paese di Brendola ha origini antichissime. È situato per il 60% in pianura, ricca di sorgive, laghetti, ruscelli e attraversata da un fiume, e per il 40% in collina. L’economia è prevalentemente agricola, dato comune dell’ottocento veneto. Angelo Boscardin, nell’atto di nascita della figlia Anna Francesca è definito possidente. La vita in seno alla famiglia non è per niente serena. Angelo – che è geloso della moglie – e, non di rado eccede in qualche bicchiere di vino, diventa litigioso e talvolta violento. La stessa figlia, parlando con le consorelle della propria famiglia, ricorda questo tratto negativo del carattere del padre, senza tuttavia provare risentimento. La madre invece, nelle testimonianze, è descritta come una donna mite, di virtù esemplare e di buona religiosità, appartiene al Terz’Ordine francescano ed è iscritta nella Congregazione delle Figlie di Maria. A circa dodici anni Anna Francesca entra a far parte come aspirante della Congregazione delle Figlie di Maria, e l’anno dopo riceve la medaglia di membro effettivo della stessa, in anticipo di circa un anno rispetto all’età minima richiesta di quattordici anni. Nel 1894 inizia a frequentare la scuola, fino alla terza elementare, con la massima assiduità. Il 1905 è un anno fondamentale nella vita di Anna Francesca: l’8 aprile entra nell’Istituto delle Suore Maestre di Santa Dorotea Figlie dei Sacri Cuori, dove il 15 ottobre inizierà il noviziato canonico, assumendo il nome di Maria Bertilla. Finito l’anno canonico di noviziato, trascorso nella casa di Vicenza dove aveva assunto il compito di fare il pane prima e poi quello di riordinare la cucina, è mandata a Treviso, presso l’ospedale civile. È l’ospedale S. Leonardo di Treviso l’ambiente dove santa Bertilla presta la sua opera apostolica. Un ambiente tutt’altro che semplice. La popolazione ospedaliera proviene «dalla classe meno abbiente e più maltrattata dalle fatiche e dalle privazioni», la situazione morale – come sottolinea il presidente Marzinotto nella sua relazione – è di «transizione»; il personale infermieristico non è di prim’ordine; neppure i reparti rispondono alle esigenze di un nosocomio. Il direttore medico Finzi, riportando le lamentele dei due infermieri del reparto difterico, scrive al presidente ponendo la questione «dell’ospitalizzazione dei difterici, il cui isolamento in sale riservate, ma attigue ad altre, non offre alcuna sicurezza contro il diffondersi dell’infezione». L’8 dicembre 1907 emette la sua professione religiosa alla quale si è preparata con scrupolo e della quale comprende l’importanza. Dopo la professione è rimandata all’ospedale di Treviso, dove la superiora non senza meraviglia per il suo ritorno, la rimanda in cucina perché sempre convinta della sua incapacità ad essere infermiera. Ma questa strada non è quella di Dio, il quale segue strade proprie. All’improvviso si deve sostituire una suora al reparto contagio, «luogo assai delicato, perché vi erano bambini colpiti da difterite, anche gravi, con tracheotomia e intubazione». Inoltre, non va dimenticato che nel 1910 ottiene il diploma di infermiera con la valutazione di 25/30; i cinque punti in meno rispetto alla massima votazione non sono dovuti alla non conoscenza della materia, ma dal possedere poco la lingua italiana, frutto questo del non aver continuato gli studi; studi che interruppe a dieci anni per iniziare a lavorare, per circa un mese presso un laboratorio situato nei pressi della Chiesa, poi andando saltuariamente a servizio presso la famiglia Rigodanza; quello che guadagna lo dà a sua madre. Anche la sofferenza darà il suo contributo alla formazione dei lineamenti spirituali della giovane. Oltre a quelle già provate nella sua fanciullezza per la situazione familiare, nel 1910 un tumore, che in seguito la porterà alla morte, farà che l’esperienza del dolore la segni sempre più in profondità. Ad una ammalata sofferente, lei stessa confida: «Se sapeste quanto soffro anch’io». La stessa ammalata continua così la sua lettera testimoniale: « Soffriva sì, ma dimenticava il suo martirio, nell’asciugare le lagrime, nel lenire il dolore, nel guarire a volte, anche delle ferite dell’anima del suo prossimo». Sul finire della prima guerra mondiale, l’Ospedale di Treviso, viene smembrato e sfollato in varie parti d’Italia. Sr. Bertilla andrà prima a Villa Raverio e poi all’ospedale di Viggiù dove resterà fino agli inizi del 1919.  Il 20 ottobre 1922, all’età di trentaquattro anni, minata da un male incurabile, chiude gli occhi su questa terra per aprirli al cielo. Viene canonizzata da papa Giovanni XXIII l’11 maggio 1961.

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA

Questa santa non ha notizie sicure sulla sua vita e sulla sua morte, anche se il suo culto si diffuse in tutta Europa; culto che influì sulla letteratura popolare e sul folclore. I testi di questa letteratura popolare redatti tra il VI e il X secolo parlano di Caterina come una bella diciottenne cristiana, figlia di nobili, abitante ad Alessandria d’Egitto. Qui, nel 305, arrivò Massimino Daia, nominato governatore di Egitto e Siria. Per l’occasione si celebrarono feste grandiose, che includevano anche il sacrificio di animali alle divinità pagane. Un atto obbligatorio per tutti i sudditi. Caterina però invitò Massimino a riconoscere Gesù Cristo come redentore dell’umanità e rifiutò il sacrificio. Non riuscendo a convincere la giovane a venerare gli dèi, Massimino propose a Caterina il matrimonio. Al rifiuto della giovane il governatore la condannò a una morte orribile: una grande ruota dentata farà strazio del suo corpo. Sarà un miracolo a salvare la ragazza che verrà però decapitata. Secondo la leggenda degli angeli porteranno miracolosamente il suo corpo da Alessandria fino al Sinai, dove ancora oggi l’altura vicina a Gebel Musa (Montagna di Mosè) si chiama Gebel Katherin. Questo sarebbe avvenuto nel novembre del 305.

SANTA CATERINA DA SIENA

Caterina nacque a Siena nel popolare rione di Fontebranda nel cuore della contrada dell’Oca il 25 marzo 1347. Era la ventitreesima figlia del tintore Jacopo Benincasa e di sua moglie Lapa Piagenti. La gemella Giovanna morirà poco tempo dopo la nascita. Il suo carisma mistico si rivelò molto presto, tanto che a soli sei anni sosteneva di aver visto, sospeso in aria sopra il tetto della basilica di San Domenico, il Signore Gesù seduto su di un bellissimo trono, vestito con abiti pontificali insieme ai santi Pietro, Paolo e Giovanni. A sette anni fece il voto di verginità. In concomitanza con queste tendenze iniziò, ancora bambina, a mortificarsi, soprattutto rinunciando a tutti i piaceri che in qualche modo potevano avere a che fare con il corpo. In particolare, evitava di mangiare carne di animale. Per evitare i rimproveri dei genitori, passava il cibo di nascosto ai fratelli o lo distribuiva ai gatti di casa. Verso i dodici anni i genitori decisero di maritarla. Evidentemente, non avevano ben compreso il carattere di Caterina, anche se in effetti le sue pratiche ascetiche erano condotte in solitudine. Ad ogni modo, pur di non concedere la sua mano, giunse a tagliarsi completamente i capelli, coprendosi il capo con un velo e chiudendosi in casa. Considerata affetta da una sorta di fanatismo giovanile, per piegarla la costrinsero a pesanti fatiche domestiche. Ma lei si barricò dentro la sua mente, escludendo del tutto il mondo esterno. Un bel giorno, però, la considerazione dei genitori cambiò: il padre aveva osservato che una colomba si posava sulla testa di Caterina mentre era intenta a pregare, e così si convinse che il suo fervore non era solo il frutto di un’esaltazione ma che si trattava di una vocazione veramente sentita e sincera. A sedici anni, spinta da una visione di San Domenico, prese il velo del terz’ordine domenicano, pur continuando a restare nella propria casa. Semianalfabeta, quando cercava di imparare a leggere le lodi divine e le ore canoniche, faticava parecchi giorni, inutilmente. Chiese allora al Signore il dono di saper leggere che, a quanto hanno riportato tutte le testimonianze e lei, le è stato miracolosamente accordato. Intanto, prese anche ad occuparsi dei lebbrosi presso l’ospedale locale. Scoprì però che la vista dei moribondi e soprattutto dei corpi devastati e delle loro piaghe le generava orrore e ribrezzo. Per punirsi di questo, un giorno bevve l’acqua che le era servita per lavare una ferita cancrenosa, dichiarando poi che “non aveva mai gustato cibo o bevanda tanto dolce e squisita.” Dal quel momento, la ripugnanza passò. A vent’anni si privò anche del pane, cibandosi solo di verdure crude, non dormiva che due ore per notte. La notte di carnevale del 1367 le apparve Cristo accompagnato dalla Vergine e da una folla di santi, e le donò un anello, sposandola misticamente. La visione sparì, l’anello rimase, ma visibile solo a lei. In un’altra visione Cristo le prese il cuore e se lo portò via; al ritorno ne ebbe un altro vermiglio che dichiarava essere il suo e che inserì nel costato della Santa. La sua fama andava espandendosi, e attorno a lei si raccoglieva una quantità di gente, chierici e laici, che presero il nome di “Caterinati”. Preoccupati, i domenicani la sottoposero ad un esame per appurarne l’ortodossia. Lo superò brillantemente e le assegnarono un direttore spirituale, Raimondo da Capua, diventato in seguito il suo erede spirituale. Nel 1375 venne incaricata dal papa di predicare la crociata a Pisa. Mentre era assorta in preghiera in una chiesetta del Lungarno, detta ora di Santa Caterina, ricevette le stimmate che, come l’anello del matrimonio mistico, erano visibili solo a lei. Nel 1376 venne incaricata dai fiorentini di intercedere presso il papa per far togliere loro la scomunica che si erano guadagnati per aver formato una lega contro lo strapotere dei francesi. Caterina si recò ad Avignone con le sue discepole, un altare portatile e tre confessori al seguito; convinse il papa, ma nel frattempo era cambiata la politica e il nuovo governo fiorentino se ne infischiò della sua mediazione. Però, durante questo viaggio, convinse il papa a rientrare a Roma. Nel 1378 venne convocata a Roma dal papa Urbano VI perché lo aiutasse a ristabilire l’unità della Chiesa, contro i francesi che a Fondi avevano eletto l’antipapa Clemente VII. Scese a Roma con discepoli e discepole, difese il papa strenuamente, morendo sfinita dalle sofferenze fisiche mentre ancora stava combattendo. Era il 29 aprile del 1380 e Caterina aveva trentatré anni, un’età che non potrebbe essere più significativa… Sarà sepolta nel cimitero di Santa Maria sopra Minerva. Tre anni dopo le sarà staccato il capo per portarlo a Siena. Quel che resta del corpo, smembrato per farne reliquie, è nel sarcofago sotto l’altare maggiore. Ha lasciato circa quattrocento lettere scritte a tutti i potenti del suo tempo ed un “Dialogo della divina provvidenza” che è una delle più notevoli opere mistiche di tutti i tempi. La figura di Santa Caterina da Siena ha ispirato numerosi artisti che l’hanno ritratta il più delle volte con l’abito domenicano, la corona di spine, reggendo in mano un cuore o un libro, un giglio o il crocefisso o una chiesa.

SANTA LUCIA DI SIRACUSA

Nacque a Siracusa tra il 280 e il 290 d.C. da una ricca famiglia. Orfana di padre venne promessa, ancora giovane, in matrimonio ad un patrizio locale. Nel frattempo la madre di Lucia si ammalò gravemente e nonostante varie e costose cure non guariva . Durante un pellegrinaggio al sepolcro di Sant’Agata, venne invocata questa Santa perché aiutasse la donna a sconfiggere la malattia. Mentre Lucia era assorta in preghiera ebbe una visione: le apparse proprio Sant’Agata dicendole che lei stessa potrà aiutare la madre a guarire; e Le preannuncia inoltre che un giorno sarà lei la Patrona della città di Siracusa. Al ritorno dal pellegrinaggio la mamma di Santa Lucia guarì, e la futura Santa decise di dedicare la sua vita al Signore. Cominciò così a distribuire le ricchezze che possedeva ai poveri e ai bisognosi che incontrava. Il suo promesso sposo, indispettito per il rifiuto, la denunciò come appartenente alla religione cristiana. L’imperatore Diocleziano intanto emanava i decreti che autorizzavano la persecuzione dei cristiani. Santa Lucia venne quindi catturata e processata. Davanti ai suoi accusatori sostenne con forza di essere cristiana. Il proconsole la minacciò di mandarla tra le prostitute. Ma Lucia gli tenne testa con le parole senza alcun cedimento. La donna fu così decisa che riuscì a mettere in difficoltà l’Arconte di Siracusa Pascasio. Per piegarla non restava che sottoporla a tortura. Ma nella sorpresa generale Lucia uscì indenne da ogni ferita e riuscì a sopravvivere anche alle fiamme. Santa Lucia morì il 13 dicembre dell’anno 304 per decapitazione. Gli “Atti Latini” scrivono che Lucia morì con un coltello conficcato in gola e non per decapitazione. Quest’ultima ipotesi è piuttosto diffusa nell’iconografia tradizionale di Santa Lucia. Dal XV secolo in poi la devozione popolare invoca Santa Lucia come protettrice della vista, per questo viene raffigurata con gli occhi sul piatto e lo sguardo al cielo. Il nome “Lucia” deriva dal latino Lux, che significa “Luce“. I resti del corpo di Lucia, secondo la tradizione, vennero tumulati nello stesso luogo in cui la donna subì il martirio. In seguito le catacombe di Siracusa, dove le reliquie vennero riposte, presero il nome della Santa. Nell’anno 878 circa Siracusa subì l’invasione dei Saraceni, così le reliquie appartenenti a Santa Lucia vennero messe altrove per sfuggire agli invasori. Nel 1204 i Veneziani, sbarcati a Siracusa, si impossessarono di alcune reliquie e le trasportarono a Venezia, dove venne nominata compatrona della città. Tutt’oggi il corpo della Santa si trova nella Chiesa dei Santi Geremia e Lucia di Venezia. La festa liturgica nella tradizione cristiana ricorre il 13 dicembre, la data della sua morte.

SANTA MARIA MADDALENA

Maria Maddalena nei Vangeli viene descritta come una donna originaria di Magdala, un villaggio di pescatori situato vicino al lago di Tiberiade, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao. Compare per la prima volta nel capitolo 8 del Vangelo di Luca, dove si racconta che Cristo stava andando tra i villaggi insieme agli apostoli e ad alcune donne che da Lui erano state guarite. Fra queste vi era anche Maria Maddalena, dalla quale erano stati scacciati sette demoni. Questo evento fa supporre che Maria Maddalena fosse molto malata e sia stata guarita da Gesù. E’ da escludere una diffusa opinione che Maria Maddalena fosse una prostituta attribuendole erroneamente un fatto descritto nel capitolo 7 del Vangelo di Luca, quando una peccatrice nota in quella città aveva lavato con olio profumato i piedi di Gesù. Non viene fatto alcun nome e non è collegabile alla vera figura di Maria Maddalena. Questa donna infatti è presente nel momento più drammatico dell’esistenza terrena di Gesù: infatti lo accompagna sino al Calvario, e rimane lì fino alla morte assieme a San Giovanni e alla Madonna. Non solo: Maria Maddalena è presente insieme a Giuseppe d’Arimatea quando il corpo di Gesù viene messo nel sepolcro. Inoltre secondo il Vangelo di Giovanni, il sabato successivo è proprio lei ad accorgersi che la pietra nella tomba era stata spostata e corse subito a informare Pietro e Giovanni. Poco dopo, Gesù si mostra a lei che era rimasta da sola al sepolcro. Ma Maria Maddalena non lo riconosce e piange disperata pensando la persona che vede sia il custode del giardino. Secondo un’antica tradizione greca, sarebbe andata a vivere a Efeso, dove sarebbe morta. In questa città avrebbero preso dimora anche Giovanni, l’apostolo prediletto, e Maria, Madre di Gesù. Il culto più antico rivolto a Maria Maddalena, risalente alla fine del IV secolo, è quello che si svolgeva nei riti della Chiesa Orientale la seconda domenica dopo Pasqua, chiamata “delle mirofore”. In quel giorno si commemoravano le donne che il giorno dopo la crocifissione e la morte di Gesù si recarono al sepolcro con gli unguenti per imbalsamarlo. Tra le mirofore un ruolo importante l’aveva Maria Maddalena, l’unica che è sempre citata in tutti e quattro i vangeli canonici. Il primo centro della venerazione della Maddalena fu Efeso, dove si diceva fosse pure la sua tomba, nell’ingresso della grotta dei Sette Dormienti; si sposta poi a Costantinopoli, dove all’epoca di Leone il Filosofo (nell’886) sarebbe stato trasferito il corpo, e si diffonde poi nella Chiesa Occidentale soprattutto dall’XI secolo soprattutto per mezzo dell’Ordine dei Frati predicatori. Frati e suore l’onorarono col titolo “Apostola delli Apostoli” come viene celebrata nella liturgia bizantina. Papa Francesco il 3 giugno 2016 ha istituito la festa liturgica di Maria Maddalena

SANTA ROSA DA LIMA

Rosa nacque a Lima il 20 aprile 1586. I suoi genitori, don Gaspare Flores e Maria de Oliva, giunti in Perù alcuni anni prima, conducevano una vita abbastanza agiata, e quando nacque Rosa le diedero il nome di Isabella. Al momento della cresima (1597), però, l’arcivescovo di Lima, Toribio di Mogrovejo, le mantenne il nome di Rosa, come da qualche tempo veniva chiamata. L’origine del vezzeggiativo sembra da connettersi col fatto che così la chiamò la serva india Mariana sin dalla culla, colpita dalla bellezza della bambina. Pur essendo donna ebbe oltre ad una educazione religiosa anche una formazione culturale. Rosa tuttavia si sentiva attratta dalla religione tanto da superare i normali obblighi religiosi con una pratica di ascesi personale molto rigorosa con cilici e privazioni. Scelse di entrate nell’Ordine domenicano optando per il Terz’ordine , del quale indossò le bianche lane il 10 agosto 1606. Continuò infatti la sua pratica ascetica che sfociava spesso in estasi mistiche: giungeva cioè alla comunione con Dio dopo aver meditato e vissuto nella sua carne la Passione del Signore. Non si ha nessuna notizia del periodo successivo, ad eccezione degli ultimi tre anni della sua vita, periodo nel quale visse nella casa di don Gonzalo de la Maza e donna Maria de Uzategui, una coppia di coniugi che vivevano all’insegna della pietà religiosa, e che quindi trattavavano Rosa come una vera figlia. Questo ambiente ideale sul piano umano fu però controbilanciato da un fisico che cominciò a deperire fra atroci dolori. Si spense così a soli 31 anni il 24 agosto 1617. Fu beatificata da Clemente IX (12 febbraio 1668), e canonizzata da Clemente X il 12 aprile del 1672.

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Fonti documentali

Oltre al testo fondamentale sull’argomento di Lidia Toniolo Serafini LA CHIESA DI SAN ROCCO E LA STORIA DEI DOMENICANI IN BORGO PANICA – MAROSTICA, Lito-Tipografia Bertato, Villa del Conte, PD, 2003 ho consultato vari siti internet a riguardo dei numerosi santi e sante e degli artisti nominati. Per alcuni di questi ci sono dei riferimenti bibliografici.

NB. sono sempre a disposizione per segnalazioni o approfondimenti in merito.

Novembre  2019

BASSANO DEL GRAPPA – ” L’ILLUSTRE BASSANESE ” – I NUMERI ORDINARI – ELENCO ALFABETICO DAL N° 1 AL N° 201

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MAROSTICA – LA CHIESA DI SAN ROCCO – PARTE PRIMA

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