LA STATUA DELLA BEATA GIOVANNA MARIA BONOMO
scultore FELICE CHIEREGHIN
committente ABATE GIAMBATTISTA ROBERTI
DI VASCO BORDIGNON
IL MONUMENTO
Poco distante dall’attuale Chiesa del Sacro Cuore di Gesù (un tempo chiamata Chiesa di San Girolamo) e del convento delle Religiose Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento (chiamate anche Sacramentine), all’incrocio tra Via G.B. Brocchi e Via Beata Giovanna, troviamo una piazzetta da cui erge verso il cielo un monumento che nel 1784 l’abate Giambattista Roberti, gesuita a quel tempo assai conosciuto, volle, a proprie spese, far erigere in quel posto per perenne memoria della beatificazione della Beata Giovanna, di cui era molto devoto, avvenuta l’anno precedente a Roma la mattina del 9 giugno 1783. Senza entrare in dettagli descrittivi sul basamento sopraelevato a tronco di piramide su cui poggia il monumento, certamente l’opera scultorea che rappresenta la Beata, in unico blocco di pietra tenera di Vicenza “Ceppo di Costozza”, si caratterizza dallo spiccato andamento verticale, amplificato dal movimento delle pieghe della veste monacale interrotto solo dal crocefisso posto in diagonale verso cui amorevolmente la beata si china appena appena come se stesse avvicinandosi per baciarlo. Inginocchiato ai piedi della statua un putto con i capelli al vento regge con la mano destra un libro aperto e con la sinistra ne indica l’iscrizione ORDI/NIS/S.BENE/DICTI, di cui faceva parte la beata.
LA BEATA
Chi era questa monaca che ai quei tempi aveva suscitato una diffusa profonda devozione?
Giovanna Maria Bonomo nacque ad Asiago nella casa paterna al centro del paese il 15 agosto 1606, figlia di Giovanni un ricco mercante dell’Altipiano e di Virginia della nobile famiglia dei Ceschi di Borgo Valsugana.
Si narra che già a dieci mesi ricevette improvvisamente dal Cielo l’uso della parola, per distogliere il proprio padre da una cattiva azione e che a cinque anni aveva conosciuto, per ispirazione divina, il mistero della presenza eucaristica. Sin da bambina parlava benissimo il latino senza l’aiuto di professori o di ripetitori.
A sei anni restò orfana di madre e poiché il padre non poteva seguirla nella sua educazione nel 1615 la condusse a Trento nel monastero di Santa Chiara, gestito dalle Clarisse, le quali impartirono alla Bonomo un’educazione secondo i costumi dell’epoca, basata su religione, letteratura, musica, lavori di ricamo e danze.
A soli nove anni, cioè a un’età eccezionale per quei tempi, venne ammessa alla prima Comunione. In quell’occasione, Giovanna Maria pronunziò un voto di verginità al quale si mantenne fedele per tutto il resto della sua vita.
A dodici anni Maria scrisse al padre la sua intenzione di farsi monaca Clarissa e di rimanere a Trento. Giovanni Bonomo cercò di ostacolare in ogni modo la vocazione della figlia, la fece rientrare ad Asiago per avviarla alla vita matrimoniale, ma alla fine acconsentì al desiderio della figlia riservandosi tuttavia di scegliere personalmente l’ordine e il monastero
A quindici anni il 21 giugno 1621 Maria entrò nel monastero benedettino di San Girolamo a Bassano. Le fu imposto il nome di Giovanna Maria e l’8 settembre 1622 fece la professione dei voti di povertà, castità e obbedienza iniziando così il cammino verso la perfezione.
La sua vita fu costellata da visioni celesti e per circa sette anni ebbe “molte grazie” e poté godere di gioie celestiali, soprattutto nelle sue frequenti esperienze mistiche, che diventavano più intense quando riceveva la Comunione. A vent’anni, durante una delle solite estasi, Gesù le pose al dito l’anello dello sposalizio mistico, e da allora per alcuni anni dal pomeriggio del giovedì fino alla sera del venerdì o la mattina del sabato, riviveva in estasi tutti i momenti e tutti i dolori della Passione di Cristo. Ricevette anche le stigmate!
Ma questi fenomeni se da un lato la riempivano di gioia, dall’altro l’angustiavano, perché la facevano apparire agli occhi degli altri “ciò che non è” come diceva lei stessa. Pregò intensamente finché le fu concessa la grazia che scomparissero le stigmate e che le estasi accadessero soltanto di notte, permettendole così di condurre una vita normale nel monastero. Ebbe anche il dono della bilocazione.
La fama di santità che si diffondeva, le suscitò la contrarietà di alcune consorelle, del confessore e della Curia di Vicenza che per sette anni le proibì di recarsi in parlatorio e di scrivere lettere. Perfino il confessore la considerava “pazza” e arrivò al punto di proibirle la Comunione finché un giorno la Sacra Particola le fu portata da un Angelo. In quel periodo fu anche colpita da malattie fisiche: febbri periodiche e poi continue, sciatica, ecc.
La situazione cambiò nell’ultimo ventennio della sua vita. Le fu permesso di riprendere la corrispondenza e fu anche eletta badessa nel giugno del 1652. Il 1° agosto 1655 fu eletta priora fino al 1664, quando fu eletta nuovamente badessa. Insegnò alle monache che la santità non consiste nel fare cose grandi, ma nel compiere perfettamente le cose semplici e comuni.
Molti, anche nobili, ricorsero a lei per consigli e molti bisognosi godevano della sua grande carità, virtù che insieme all’umiltà e all’eroica pazienza furono le caratteristiche della sua vita.
Ma era ormai vecchia, colma di meriti ma anche carica di dolori, sotto il cui peso finalmente piegò le stanche ginocchia a Bassano il 1° marzo 1670
Molte guarigioni prodigiose furono attribuite alla sua intercessione tanto che nel 1699 fu introdotto il processo di beatificazione che si concluse il 9 giugno 1783 quando fu solennemente beatificata da Pio VI con grande gioia della popolazione di tutto il Veneto e in particolare di Bassano ed Asiago che l’acclamarono patrona. Il corpo della Beata fu venerato nella Chiesa (ora del Sacro Cuore di Gesù) del Monastero di San Girolamo (dove come abbiamo letto ha vissuto la Beata e dove attualmente vivono le Sacramentine) fino al 1810 quando il monastero fu soppresso per decreto napoleonico e la chiesa fu chiusa alle pratiche religiose. Il corpo allora venne trasferito nella vicina chiesa allora dedicata alla Santa Maria della Misericordia. Qui nel 1813 fu realizzata una nuova cappella in onore della Beata Giovanna e la stessa chiesa da quel momento, divenendo Santuario della Beata, venne e viene tuttora chiamata chiesa della Beata Giovanna.
L’ultimo prodigio si verificò nella sua patria natale durante la prima guerra mondiale, quando nonostante i furiosi bombardamenti che distrussero tutta Asiago, la statua a lei dedicata nel 1908 davanti alla sua casa natale, rimase inspiegabilmente intatta.
LO SCULTORE
“Felice Chiereghin trasse i natali in sul mezzo del decimottavo secolo dal veneziano scultore e fusore in bronzo Michielangiolo soprannominato Venier. Seguendo ma più modestamente però le orme paterne, diede mano allo scalpello ed eseguì alcuni lavori in patria che gli procacciarono se non danari almeno sinceri applausi da’ suoi contemporanei” (da N.Pietrucci, op.c.).
Negli autori locali l’opera e l’autore non suscitarono molta considerazione. Infatti il Brentari definisce l’autore “mediocrissimo scultore” e il Lorenzoni definisce “opera mediocre assai di certo Felice Chiereghin”.
La statua della Beata Giovanna pare sia la prima opera del Chiereghin, il quale poi produrrà varie opere statuarie soprattutto in Padova, tuttora presenti sia nel Duomo, sia nella Basilica del Santo, sia facenti parte del grande apparato statuario di Prato della Valle.
Felice Chiereghin morì a Padova presumibilmente dopo il 1818.
Su questo scultore tuttavia mi piace ricordare quanto scrive Alberto Bordignon (op.c.):”L’esiguità dei documenti e la dura critica alla sua opera che ci ha tramandato la letteratura artistica lo propongono come artista di “non grande levatura” se non addirittura “mediocre”, e le sue sculture vengono spesso descritte quali “non felici esemplari”. Nonostante tali premesse, le sue creazioni ornano, ancora oggi, spazi pubblici, spesso in posizioni di primo piano o sulle vie principali delle città”.
IL COMMITTENTE l’abate Giambattista Roberti
Giambattista Roberti nacque a Bassano il 4 marzo del 1719, figlio del conte Roberto e di Francesca Fracanzani. Dai dieci ai diciassette anni stette a dozzina [cioè in affitto] in Padova in casa d’un prete, don Giacomo Gambarati ed ebbe come maestri i Gesuiti. In questo periodo fu seguito costantemente nella sua formazione anche dallo zio il marchese Giovanni Poleni, professore di fisica all’Università padovana. Terminati questi studi, dapprima manifestò l’intenzione di entrare nell’ordine benedettino presente in S. Giustina sempre a Padova, ma poi scelse di entrare nell’ordine di Sant’Ignazio, vestendo l’abito di gesuita a Bologna il 20 maggio del 1736 iniziando così il noviziato. Dopo due anni di noviziato, fu inviato nel 1739 a Piacenza ad insegnare ad un centinaio di scolari la grammatica inferiore, e si distinse per la sua abnegazione e dedizione a questo compito. Nel 1741 il nostro gesuita ritornò a Bologna nel collegio di Santa Lucia per intraprendere gli studi filosofici, e qui nel 1743 fu ordinato sacerdote.
Nell’autunno dello stesso anno, terminato il corso filosofico, si recò a Brescia in qualità di maestro di umanità nel collegio della Beata Vergine delle Grazie; qui ebbe modo di conoscere l’abate Saverio Bettinelli, con cui strinse una amicizia destinata a durare a lungo, e con il quale condividerà le prime esperienze letterarie. Sono infatti questi gli anni dei suoi primi scritti: nel 1744 concluse una prima stesura del poemetto La Moda e pubblicò la prima edizione del poemetto Le Fragole, entrambi composti in occasione di nozze illustri.
Nel 1746 Roberti si trasferì a Parma, presso il Collegio dei Nobili, dove insegnò Rettorica e ricoprì la carica di Accademico fino al 1751, quando gli succedette lo stesso Bettinelli.
In qualità di Accademico Roberti si trovò preposto all’organizzazione delle rappresentazioni teatrali, che costituivano un momento decisivo nel metodo educativo dei collegi gesuiti. Questa esperienza influenzò il gusto e la sensibilità artistica del Roberti, che si interessò molto da vicino alle esperienze teatrali italiane e europee di quegli anni, mostrando particolare predilezione per le opere di Carlo Goldoni. Oltre a numerose lettere di elogio e stima al commediografo, Roberti manifestò l’ammirazione al Goldoni dedicandogli il poemetto intitolato La Commedia. Qui Roberti tratteggia la storia delle rappresentazioni sceniche dalle origini fino ai tempi moderni, arrivando alla riforma goldoniana che, non capita da molti, egli appoggia con sincerità.
Nel 1751 fece ritorno a Bologna nel Collegio di S.Lucia, dove insegnò filosofia ai novizi, e si dedicò anche alla catechesi della popolazione oltre a dedicarsi al sacramento della confessione. Il 15 agosto del 1753 mediante la professione solenne dei quattro voti raggiunse il massimo traguardo per un membro della Compagnia di Gesù.
In questi anni si consolidò la vocazione letteraria già sbocciata negli anni precedenti, e si manifestarono i segni di una vorace curiosità scientifica, favorita anche da amicizie con personaggi di riconosciuta fama attratti da quel polo di sapere e di confronto culturale che era la Bologna del Settecento: ricordiamo fra tutti i nomi di Francesco Algarotti, il cui’’Newtonianismo per le dame’’ rappresenta l’emblema della divulgazione scientifica in voga nel Settecento, e Jacopo Vittorelli, autore delle cose più delicate che abbia saputo esprimere l’Arcadia. Nel 1757 con la recita del Panegirico scritto in onore di S. Filippo Neri Roberti fece ingresso ufficiale nella Bologna letteraria, nel mondo dei salotti e delle accademie. Ma egli, benché fosse affiliato a molte di queste, le considerava “spossate”, e vi si recava a recitare versi solo raramente. Risalgono al periodo bolognese molte delle sue opere più importanti, quali la Lettera sull’uso della fisica in poesia, i quattro Trattati sul lusso, la Lettera di un bambino di sedici mesi. Infine è a Bologna che vide la luce la prima raccolta di opere del Roberti, il cui primo di otto volumi uscì nel 1767 per i torchi di Lelio della Volpe.
A Bologna Roberti stette quasi vent’anni, “la più lunga e la più felice parte di sua vita”; la sua attività principale era quella di tenere lezioni di Sacra Scrittura in Chiesa, compito che egli assolse ininterrottamente dal 1755 al 1773. Recitò circa duecento lezioni spaziando da un capo all’altro delle Sacre Scritture e riscuotendo grande successo presso i fedeli bolognesi.
La sua attività fu spezzata bruscamente il 21 luglio 1773, giorno in cui Papa Clemente XIV sancì la soppressione della Compagnia.
Abbandonata per sempre l’amata Bologna, dopo alcuni anni di spostamenti fra Padova, Vicenza e Treviso, il Roberti si stabilì definitivamente nella città natale ai piedi del Grappa. Mi piace ricordare quanto scrisse il Tommaseo (op.cit.) su questo periodo bassanese “”Si raccolse egli dunque in Bassano “un de’ più amabili e felici paesi della terra, dove la terra e il cielo ridono, né manca verun agio e carezza della vita”. Ma in questo paese pieno di bel tempo e di danaro, egli visse rispettando assai volentieri le decenze del suo stato, e sempre più indirizzando gli studi a fine sano. Per ubbidire al suo Vescovo, dedicava al confessionale buona parte di tutte le sue mattinate insino dall’ alba, ascoltando con diligente pazienza i contadini concorrenti [che giungevano] anche da luoghi lontani. A’ novellieri oziosi la sua porta era socchiusa, ma notte e dì aperta ai penitenti, a’ poverelli, agli afflitti, pei quali sollecito s’ alzava da mensa. A’ poveri faceva le domeniche catechismo da sé; degno di gratitudine in questo, ma non nel premiar ch’ e’ soleva col danaro la buona loro memoria.[premiava quindi quelli che rispondevano correttamente alle sue domande e che quindi erano stati attente alle sue spiegazioni catechistiche]. La sera un piccol crocchio gli condiva la parca cena, ragionando di lettere e d’arti belle. “Dormo, scriv’egli, la notte, e veglio il giorno, stravaganza grande, e come ignobile, per chi vive negli antipodi di Venezia “. Amava in gioventù le innocenti insidie della caccia; vecchio, non giocava, ma sedevasi osservando con diletto chi giocava da prode. Nel recinto dello spedale [accanto alla Chiesa di San Francesco] s’era accomodato un casinetto [si trattava di un piccolo edificio che lo stesso Roberti aveva voluto] ,e quivi dopo le confessioni attendeva la mattina agli studi; quivi passava da ultimo i mesi che a’ suoi era costume dimorare in Padova ogni anno. Assisteva agl’ infermi fino all’ estrema agonia; mancando il cappellano, dicea ad essi la messa; e fece di suo cortinaggi a ciascuno de’ letti.” [in pratica a sue spese fece circondare ogni letto con tendaggio in modo da realizzare una certa riservatezza e rispetto del malato].
Il Roberti amava profondamente la sua città natale e desiderando fortemente di valorizzarla, commissionò al maestro del Canova, cioè a Giuseppe Bernardi detto Torretti, un busto di Bartolomeo Ferracina che donò ai bassanesi nel 1782, e a sue spese offrì, come detto, la statua della Beata Giovanna. A Bassano passò le sue giornate dividendosi fra l’amministrazione della confessione e l’insegnamento del catechismo. Ma l’attività intellettuale non si interrompe, anzi è vivificata dalla tranquillità concessa dall’isolamento. Nella quiete bassanese Roberti si dedicò con sistematicità all’attività apologetica e trattatistica, approfondendo nella prosa dotta e filosofica del trattato i temi più urgenti della crisi che la sua epoca stava vivendo e di cui egli aveva fatto esperienza sulla propria pelle. Si confrontò con il pensiero del suo tempo, lo meditò e ne studiò i punti deboli, scese in campo nella difesa della fede cristiana, partendo da un’analisi oggettiva dei comportamenti e delle pratiche della fede. Il frutto di questi anni di riflessione è una serie di scritti contenenti le pagine più importanti del gesuita bassanese. Fra queste menzioniamo il trattato Del leggere i libri di metafisica e divertimento e le Annotazioni sopra l’umanità del secolo Decimottavo: due opere che ebbero successo anche al di là dei confini italiani. Ai primi di luglio del 1786 cadde ammalato per una febbre definita dai medici “putrida” che lo portò alla morte il 29 luglio, nella sua casa di Bassano.
Scirve ancora il Tommaseo “”Morì nel luglio dell’ ottansei, sostenendo senza lamento le operazioni dolorose dei medici; preparandosi, che pochi fanno, all’ estrema unzione con parecchie ore di pensiero e di prece; benedicendo più volte con sereno affetto i suoi di famiglia, a’ quali, già sano, raccomandava lo facessero avvertito quando la malattia porterebbe pericolo.”
Mi piace ancora terminare queste note riportando l’affresco che Tommaseo ne fa sempre del Roberti rendendolo a noi quasi famigliare “Sereno di viso e d’umore; di colore sano; anzi pingue che no; debole delle gambe; non patì né d’ emicranie nè d’indigestioni, nè di convulsioni, malattia che alle donne dava fama di sentire delicato, e agli autori d’imaginare fecondo. Ebbe più medici amici, della medicina non fu amico mai. Sua medicina era l’ordine della vita, l’equabile e bene accomodata distribuzione delle ore,”in modo però che l’oriuolo sia direttore degli atti, ma non tiran”. Uguale ne’ modi, temperato, tranquillo. Fece un trattato delle virtù piccole, di quelle che occorrono nelle piccole quotidiane occorrenze del vivere, e ch’hanno radice e ragione di sé nelle grandi; cioè la trattabilità, la condiscendenza, la semplicità, la mansuetudine; la soavità negli sguardi, negli atti, nelle parole; della quale Gesù Cristo è sovrano modello. E le dice, come i fiori, virtù piccole, ma fragranti; come nel corpo dell’ uomo il buon colore ed il succo della carne. Scrive in un luogo: “io vivo così, ma non declamo contro chi non usa così”. Loda la tolleranza; non istà con coloro che amano “sospirare sopra i disordini del secolo, ed esercitare uno zelo non purificato da ogni amarezza”. Per indole e per massima si astiene dal dispregiare, dall’ ingiuriare per ira di zelo, e gode di poter dire meno male degli altri che può. Facile agli altri, severo a se stesso. “ Provocato, dice, dalla letizia d’una buona compagnia, so di non essere stato sempre uno spiacevole; ma so ancora di non essere sempre piaciuto a me medesimo”. Si teneva per massima lontano dalle esteriorità affettate, e dalle estremità eccessive; la quale moderazione è virtù rara ed alta, quando non sia piacenteria o debolezza “ (op.cit.).
E’ certamente ancora adesso un esempio da imitare.
Fonti documentali
Bordignon Alberto. Monumento alla beata Giovanna Maria Bonomo. In: AA.VV. Notiziario degli Amici del Museo e dei Monumenti di Bassano del Grappa.. Notiziario dell’Associazione, Bassano, dicembre 2007.
Bottecchia Dehò Maria Elisabetta. Canto dell’amore nascosto. Beata Giovanna Maria Bonhomo. La Serenissima, Vicenza, 2006 [ Costituisce l’ultimo testo, frutto di uno studio approfondito e documentato della Prof. Bottecchia Dehò, sulla figura e sulla spiritualità della Beata, pubblicato in occasione del IV centenario della nascita, ricordando poi che l’h nel cognome Bonhomo si conservò fino all’Ottocento]
Brentari Ottone. Guida storico-alpina di Bassano–Sette Comuni. Tipografia Sante Pozzato, Bassano, 1885.
Fabris Antonella. L’Illustre Bassanese. Anno VI. N. 29. Maggio 1994. Tipografia Minchio. Bassano
Lorenzoni Alessandro. Guida descrittiva di Bassano e dintorni. Tip. Romano Silvestri Editore, 1912.
Pietrucci Napoleone. Biografia degli artisti padovani. Tipografia Bianchi, Padova,1858.
Sandonà Giovanni Battista. Ragione e Carità. Per un ritratto di Giambattista Roberti. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia, 2002.
Sella Franco. Beata Giovanna Maria Bonomo in www.santiebeati.it
Tommaseo Nicolò. Giambatista Roberti. In: Ferrazzi Giuseppe Jacopo. Di Bassano e dei Bassanesi illustri. Bassano, Tipografia Baseggio Editrice, 1847.
Wikipedia – Giambattista Roberti