POVE DEL GRAPPA E GLI SCALPELLINI
di Vasco Bordignon
PARTE PRIMA : LA STORIA DI UN LAVORO E DI UN’ARTE
In un atto notarile del 13 agosto 1570 viene chiamato a testimoniare nella piazza di San Pietro di Pove un certo mastro Zuanantonio fu Gregorio, di professione “lapicida”, vale a dire tagliapietra. Non è di Pove, ma risiede a Pove (altrimenti non sarebbe stato chiamato a teste) ed è un maestro, un maestro della lavorazione della pietra e del marmo, uno scalpellino.
Ciò non ci meraviglia in quanto nel Cinquecento è già ben chiara la fama di Pove per i suoi marmi e per i suoi scalpellini. Infatti il grande Scamozzi dice “ A Poe ne’ monti di Bassano, terra di qualche nome e dell’antica giurisdizione di Vicenza, posta alle radici dell’Alpi, ove esce la Brenta, si cavano grandissima quantità di pietre vive di molto nervo e bianche, e sonore, e di belle lunghezze e grossezze, ma alquanto vetrigne, delle quali si servono comunemente e si è rinnovata di nostro ordine la Pieve di quel luogo …. Ritrovano parimenti honesta quantità di pietre vive di convenevolezza e grossezza e saldezza: macchiate di color rosso e scuro, e altre miste di giallo, che ricevono molto pulimento e lustro, delle quali se ne fanno porte e nappe da foco e altre delicatezze.”
La costruzione della nuova chiesa parrocchiale di Pove dapprima (1604) e poi la ricostruzione degli altari lignei in grandiosi altari marmorei (verso metà dello stesso secolo) rappresentano le opere più antiche e importanti per gli scalpellini povesi. La loro preziosa attività nel bassanese è già fiorente nel Settecento dove nel frattempo erano sorte importanti botteghe quali quelle dei Furegon, dei Montin e dei Marinali per accennare ai più importanti. Gran parte delle pietre e dei marmi di queste botteghe provenivano dalle cave di Pove. Ne dà testimonianza un geografo tedesco, Anton Friedrich Buesching, in visita allo stato veneto, verso la seconda metà del Settecento, passando per Pove annota: “Nelle montagne di questa villa si trovano alcune cave di superbissimi marmi di varj colori, cinerizio, rosso carico, rosso chiaro e bianco. Questo ultimo singolarmente per la sua bianchezza singolare, e per la sua lucidezza viene assai stimato dagli artefici. È denominato Biancon di Pove, ed assomiglia moltissimo al marmo di Carrara.”
Verso la fine del Settecento e inizio Ottocento continua ad aumentare l’attività estrattiva e lavorativa. Ne è testimonianza come all’anagrafe della comunità povese, nei primi decenni dell’Ottocento, i capifamiglia (esclusi i figli o altri membri di casa), che vivono di quest’arte o di questo lavoro, appaiono circa una quarantina, fra cui due cavadori, cinque lustradori e trentatré tagliapietra. In gran parte essi svolgono la loro attività in casa o al laboratori. Abitano, dunque, quasi tutti al centro del paese e appartengono in genere alle famiglie dei Bosa, Caron, Donazzan, Fusaro, Marcadella e Zanchetta, a cui si aggiungeranno a metà dell’Ottocento altri provenienti dagli Andolfatto, dai Menini, dai Murari e dagli Scotton.
Da queste famiglie Napoleone, durante il Regno ltalico (1807-1813) trarrà la maestranze, che vedremo al lavoro per le Procuratie di San Marco a Venezia, il Canova gli scalpellini per il suo tempio a Possagno (nella costruzione del tempio di Possagno, ricorda il Brentari, lavorarono quasi mille operai, in buona parte scalpellini, affidati dal Canova stesso alla direzione del povese Stefano Marcadella) e l’imperatore Guglielmo i valenti artisti per la sua cattedrale di Colonia.
Inoltre da ricordare come nei primi anni dell’Ottocento uno scalpellino di Pove, Antonio Bosa, riesca ad emergere al di fuori di questo territorio, discepolo e ammiratore del Canova, nella difficile arte dello scultore e lasciando, soprattutto a Venezia, numerose opere di grande valore. Tanti altri lo seguiranno in una migrazione talora spontanea talora necessaria dapprima all’interno del paese e stagionale e poi all’estero, in Europa oppure oltre l’Oceano.
Pure nella prima metà dell’Ottocento il lavoro di estrazione e di lavorazione delle pietre e dei marmi a Pove risulta ancora in piena espansione. Il materiale proveniente dalle cave di Pove ma anche di Romano e di Solagna è ancora abbondante e i comuni fino ad allora non richiedono alcun canone di affitto. E’ solo nel 1859 che il comune di Pove applica agli scavatori del paese un regolamento e imponga loro un regolare contratto di affittanza, che verrà poi rinnovato e aggiornato negli anni successivi sino al 1889, quando diventerà novennale e in quest’anno sono ben 29 i concessionari delle cave povesi. Il Comune nel frattempo (1865) sistema la strada di accesso alle cave e così il trasporto del materiale diviene meno rischioso.
Questo periodo è caratterizzato dalla unificazione dell’Italia, ed emergeranno altri illustri artisti povesi quali Giovanni Fusaro e Pietro Longo.
E’ sul finire dell’Ottocento che questo lavoro, che dà da vivere a quasi metà del paese, entra in crisi. La migrazione stagionale degli scalpellini specie in Austria, Germania e Francia, va crescendo e darà origine a vari problemi non solo sociali quali l’inattività degli stessi nel periodo invernale, il problema delle famiglie con tanti bambini lasciati per lunghi periodi in custodia solo alle donne sole, ma anche per la stessa attività delle cave come denunciato nella seduta del 15 maggio del 1906 quando il sindaco espone al consiglio “come per la generale emigrazione di questi operai che annualmente viene verificandosi, le cave di pietra di questo comune rimangono nelle migliori stagioni dell’ anno quasi intieramente abbandonate; ond’ è che i laboratori di pietra qui esistenti non possono dar corso alle varie richieste di pietre lavorate, non potendo essi ottenere dalle cave i relativi materiali; fatto questo che non può apportare che gravissimo nocumento al principale commercio che si abbia nel comune…”
Vengono ipotizzate delle soluzioni che però naufragarono per la mancanza di mezzi economici.
La situazione nel comune di Pove peggiora ulteriormente per il notevole aumento del numero dei senza lavoro a causa del rimpatrio forzoso già dal 1914 di numerosi scalpellini dalle nazioni belligeranti (Austria, Germania e Francia): almeno 250 famiglie sono alla fame.
Tanti scalpellini partono per il fronte sperando di tornare presto, e soprattutto di non andare più raminghi per il mondo. Ma al rientro, dopo anni di guerra e quindi di grandi sofferenze, la loro sorte non sarà migliorata anzi sarà peggiore.
Così con la riapertura nel 1922 delle frontiere europee, l’emigrazione povese riprende nuovo vigore. Molti vanno e vengono; partono in primavera e tornano colla stagione invernale, adattandosi ad ogni genere di occupazione… Alcuni rimangono in Italia, specie in Piemonte, Trentino, Veneto e Lombardia, altri superano le Alpi e si recano in Francia, Svizzera, Germania, altri ancora travalicano gli oceani per giungere negli Stati Uniti, in Brasile, in Argentina e in Australia.
Ovunque il loro lavoro viene considerato e apprezzato.
Fra le innumerevoli opere ricordate con maggiore insistenza e fierezza dagli scalpellini povesi segnaliamo: la Basilica di Santa Teresa a Lisieux in Francia; il monumento alla Regina Elisabetta in Germania; i grandi cimiteri ai soldati inglesi, caduti in Francia durante la prima guerra mondiale; il Palazzo del Governo a Berlino; e, infine, dopo l’ultima guerra, il Monumento all’Europa a Bruxelles. E in Italia: il Tempio Ossario di Bassano del Grappa, l’Ossario di Asiago e quello del Grappa; e infine, dopo l’ultima guerra, il monumento a De Gasperi a Trento.
Con la migrazione del primo dopoguerra (1921-1924) a Pove l’attività estrattiva e di riflesso la lavorazione della pietra e del marmo continua ad essere in crisi. Negli anni del fascismo peggiora ulteriormente: nel 1934 le cave aperte restano solo cinque e sono quelle di Corsoduro, Priarola, Piombino, Fontanella e Pierazza.
Nel periodo fra le due guerre i laboratori di marmo ancora in esercizio a Pove sono una dozzina : quelli con maggior numero di operai sono la ditta Angelo Zanchetta e figlio, quella dei fratelli Giuseppe e Gaspare Donazzan e quella di Franco Cavallini.
Finita la seconda guerra mondiale alcuni scalpellini di associano in cooperativa per poter sfruttare ancora le due cave ancora presenti “Campanileto e Guaregno”, ma i più riprendono la strada dell’emigrazione e per qualcuno senza più ritorno, perché piano piano la meccanizzazione delle varie fasi di estrazione (vedi filo elicoidale, martello pneumatico, ecc.), le varie fasi di trasporto (miglioramento delle vie di accesso, l’uso di camion, ecc.), la lavorazione con strumentazione automatica e anche la minor richiesta di materiali lapidei specie per le costruzioni edili a vantaggio dell’uso del cemento o di altre soluzioni più economiche, l’antico lavoro a Pove viene lentamente a morire.
Ma anche dopo la guerra l’anima dell’arte povese, come una fiamma che perennemente arde e si trasferisce per mille misteri in alcuni eletti, sorgerà in almeno due figure di altissimo livello quali lo scultore Danilo Andreose e il suo allievo Natalino Andolfatto.
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Il Comune di Pove ha realizzato un piccolo “Museo dello Scalpellino” intitolato ad Antonio Bosa, uno dei più grandi scultori povesi e italiani.
Questo ambiente vuole mantenere un legame storico e affettivo con i suoi concittadini del passato che per secoli hanno vissuto di questo durissimo lavoro. Purtroppo ho avuto la sensazione (ma vorrei sbagliarmi) che tale legame si sia molto affievolito. Ahimè.
Il museo è visitabile nei giorni di apertura della Biblioteca :
Lunedì, Martedì, Giovedì dalle 14,30 alle 17,30
Mercoledì dalle 14,30 alle 19,30.
Telefono Biblioteca: 0424-80659
Telefono Municipio: 0424-80333
Bibliografia alla fine della seconda parte: POVE DEL GRAPPA – GLI SCALPELLINI: LE ATTIVITA’