MARGINALIA – FOGLI D’ALBUM – 1993
Questo file raccoglie una serie di immagini realizzate nel 1993 presso l’Istituto Trento di Vicenza. I soggetti sono gli anziani ospiti di questa struttura, Zarpellon con pochi tratti eseguiti con matite su carta (cm 48×34,5) riesce a realizzare una carellata di persone dignitose….
COLOMBA
ARTEMISIA
GIOVANNINA
ROMEO
ROSINA E NINA
MERCEDES
ROSALIA
SILVIO E ANITA
SILVANA
RAFFAELE
DOMENICO
MARIA RADIN
OLENIA
GIUDITTA
RAFFAELE
MARIA
MATILDE E LUCIA
MARIA
iRIS
RAFFAELE
DOMENICO
CESIRA
ANGELA
GIOVANNINA
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Appunti per cinquanta disegni
di Toni Zarpellon
Mi piace paragonare i miei ” segni” ai fili metallici conduttori di energia elettrica, che si vedono tesi a penetrare lo spazio per portare la corrente nelle case. Pratica, quella di disegnare a mano libera, oggi in disuso afavore di tecniche sempre più efficienti e definite razionali, quali le tecnologie computerizzate o la realizzazione di progetti con strumenti che danno la massima chiarezza e precisione. Credo che la questione non si ponga nei termini di una maggiore o minore espressività, diatriba questa d’altri tempi, semmai riguardi la maggiore o minore possibilità di conoscenza che il tracciare segni nello spazio, in un modo o nell’ altro, comporta. È un interrogativo di non poco conto in un’ epoca dove ogni attività umana è coinvolta in sempre più rapidi aggiornamenti tecnologici, imposti da nuovi codici d’informazione strettamente legati alla competizione economica. Consapevole di ciò, io continuo a tracciare segni a mano libera, perchè finora solo in questo modo ho potuto scavare per aprire nuove brecce nell’ oscurità della mente.
Era un’ assolata mattina di maggio deli993 quando, per la prima volta, sono entrato con il mio album da disegno e le matite colorate nella Casa di Riposo “istituto Trento” di Vicenza. Non sapevo ancora quale sarebbe stata la reazione delle persone ospitate alla mia richiesta di eseguire alcuni disegni osservando i loro volti e i loro corpi. All’ inizio ho trovato riluttanza nell’accettare i miei inviti forse per difendersi dall’ invadenza di uno sguardo estraneo, il quale si proponeva di indagare e riflettere sulla loro condizione esistenziale. Convinta da alcune inservienti, Placida fu la prima che accettò di posare. Ci sistemammo in una stanza appartata al piano terra. C’era un piccolo tavolo dove potevo appoggiare i miei strumenti di lavoro. Seduta su una sedia, lei mi osservava incuriosita mentre appuntavo qualche matita per iniziare a rendere visibile ciò che si agitava nella mia mente. Del suo volto feci due disegni: uno di profilo con il colore ocra, l’altro, quasi frontale, con la grafite.
Era l’inizio di una intensa settimana di lavoro. Esso I si sarebbe sviluppato in un crescendo di libertà psicolo- r gica ed emotiva in rapporto alla sempre maggiore disponibilità di queste persone a farsi “ritrarre”. La mattina seguente infatti, incoraggiato dalla loro complicità, sono salito al piano superiore.
Vicino alle camere c’era un grande soggiorno con ampie vetrate dove trascorrere gran parte della giornata per parlare, giocare, leggere o semplicemente restare seduti in attesa della visita di qualche parente. Al centro, un grande tavolo mi permetteva di lavorare con libertà di movimenti. Fui subito attorniato da uomini e donne incuriositi da quanto stava succedendo e appreso di che cosa si trattava, in molti espressero il desiderio di farsi ”fotografare”. Così almeno dicevano alcuni forse ignari del reale significato che aveva per me tracciare “segni”.
Mi sembrava importante fossero contenti di sentirsi al centro dell’ attenzione, sapendo che mi interessavo a loro, di sentirsi per qualche minuto attori di un evento teatrale che si realizzava nel piccolo e silenzioso palcoscenico di un foglio di carta di cm. 48×34,5. Così Raffaele, costretto in carrozzella tutto tremante con il volto arrossato e incapace di parlare, ogni mattina voleva gli dedicassi un disegno. Sorrideva contento quando gli facevo vedere cosa avevo fatto. Anche Angela era costretta in una sedia a rotelle, avvolta nello scialle di lana, teneva scoperte le mani bianche e le gambe paralizzate e gonfie. Altre donne, come Maria, stavano invece sedute per ore e ore con le braccia incrociate, senza dire una parola, come fossero in attesa di qualche cosa che poteva essere la morte oppure un miracolo che avrebbe ridato loro forza fisica e sicurezza psicologica. Uomini dallo sguardo vuoto e assente si trascinavano con le stampelle o il bastone per tenere le gambe in movimento, così da rimandare il più possibile nel tempo la letale immobilità. 1 più fortunati conservavano intatte le proprie facoltà fisiche, anche se i loro volti dicevano di una profonda solitudine e rassegnazione.
Mi trovavo a riflettere con le forme e i colori su uno degli aspetti della condizione umana: l’età avanzata della vita caratterizzata dal decadimento delle funzioni organiche e dall’ atrofia di organi e tessuti. Presa di coscienza inquietante, soprattutto in un mondo come il nostro dove imperano modelli di eterna giovinezza e delirante efficientismo tecnologico simili allo sfrigolio di una padella o a un interminabile fuoco d’artificio, dove il rapporto concreto con la realtà è occultato da un’ assordante e arida speuacolarità. Sembra che l’uomo abbia smesso di pensare e accettare la morte come regolatrice cosmica della vita stessa, e, con la morte abbia smesso di pensare e accettare il tempo, di cui ne sente la causa, perchè percepito come inesorabile forza dissipaiiva anzichè creativa. Rimuovendo il tempo come elemento costitutivo dell’ essere, anche lo spazio si è svuotato di significati vitali.
1 cinquanta disegni eseguiti all’ interno dell’ Istituto si collocano subito dopo i miei interventi nelle “Cave di Rubbio” che hanno determinato un radicale rinnovamento spazio-temporale con la realtà. È stato un autopartorirmi dalle viscere della terra per ripresentarmi al mondo e iniziare un nuovo percorso di vita. Ecco allora questi “fili elettrici” articolati che diventano forme per abitare lo spazio. Sono segni del mio tempo ritrovato, che non è più quello dell’ orologio, ma intrinseco alla mia struttura biologica. Gli animali e le piante non portano l’orologio!!!
Desidero osservare ora da vicino alcuni fogli senza con questo voler fare il critico di me stesso. Lascio ad altri il gravoso compito di formulare giudizi sul mio lavoro. Lo scrivere significa per me continuare a tracciare segni che mi permettono ulteriori chiarimenti al marasma che mi porto dentro, soprattutto nei periodi di passaggio da una fase ad un’ altra del mio solitario percorso artistico che, a partire dalle “Crocifissioni” del i965, dura ormai da trent’ anni. Ciò che mi sta incuriosendo è come la fisicità delle cose si manifesti in rapporto al progressivo smantellamento di uno strano buco nero, che avverto essere presente nella mia mente. Lo svelamento della materia pregna di un proprio tempo è il risultato di un lento processo di elaborazione mentale.
È quanto ho avvertito disegnando i volti e i corpi delle persone all’ interno della Casa di Riposo, una delle ultime occasioni che mi hanno dato conferma di come l’illuminarsi e il dilatarsi di un nuovo orizzonte di vita consentano un rinnovato rapporto di comunicazione sociale. Ecco allora il volto di Maria, di anni 95, solcato dalla creatività del suo tempo e che i segni del mio tempo hanno fissato nello spazio. Segni tracciati con forte emotività, per individuare essenziali linee di forza che commentano i piani incastrati uno sull’ altro, accentuati dai giochi di luci e di ombre. E così i volti di Raffaele, di Iris, di Olenia, di Silvana, di Rosalia che in varie posizioni spaziali si impongono plasticamente per ribadire la propria presenza nel mondo, legame non casuale con i massi di pietra della “Cava dipinta” di Rubbio . Il problema non cambia: ricostruire la realtà partendo dal nucleo di una identità ritrovata per smascherare e riempire il vuoto delle apparenze. Ma non è una ricostruzione meccanica! Quando lavoro, dalla mia mano “sgorgano” pensieri, emozioni, umori e tutto quanto si può immaginare possa succedere o succede dentro l’umidità della vita.
Gli occhi di Artemisia mi scrutano: mentre osservo e disegno il suo volto, mi parla della propria vita in modo composto e consapevole, che mi impone di ascoltarla placando la mia tensione. Non la scarnifico come gli altri e ottengo un “ritratto” più sereno, quasi per ammonirmi che non serve agitarsi tanto e che l’arte non potrà mai cambiare il mondo. Sorella di un gallerista, difatti riguardanti l’arte ne aveva visti di tutti i colori. Mi diceva che la cosa più difficile da fare è cambiare se stessi: il mondo sarebbe cambiato di conseguenza.
In alcuni disegni ho colto l’iruerezza dei loro corpi abitualmente seduti ora soli oppure raggruppati per scambiarsi qualche parola come facevano i vecchi contadini nelle loro stalle per trascorrere il tempo nelle lunghe sere d’inverno. Domenico si sedeva tutte le mattine su una poltroncina di materiale plastico con la testa inclinata e appoggiata al palmo della mano. Non parlava mai, quasi stesse pregando la Madonnina di gesso dipinto appoggiata alla parete di fondo. Giovannina teneva tra le mani un gomitolo di lana che continuava agitare come se scottasse. Cesira indossava una maglia a righe orizzontali bianche e rosse e quando vide il disegno che le avevo dedicato, si arrabbiò perchè le ‘avevo fatto il naso tutto nero. Il volto scavato di Giuditta lasciava ormai intravedere la struttura ossea del cranio. E poi Colomba, Mercedes e Romeo, di cui ho voluto cogliere la forma del corpo che si pone nello spazio riempendo l’architettura dei segni con tratti ravvicinati.
Concluso il lavoro, me ne sono andato ringraziando per l’ospitalità e per la loro disponibilità a farsi “ritrarre” , permettendomi un’ esperienza vissuta dentro il tempo e lo spazio della vita.
Toni Zarpellon – Agosto 1995